Chi scrive porta nel cuore squadre lontane anni luce dalla Superlega, e per le quali nella storia, quando hanno incontrato le tre “strisciate” del Nord, è sempre stato un recitare il ruolo di Davide contro Golia; pertanto pensiamo di avere la giusta dose di lucidità e coinvolgimento per ragionare su questa vicenda senza farsi assalire dalla partigianeria o peggio ancora da malsane suggestioni fingendosi caduti dal pero.
D’altronde è da almeno 2500 anni, dalla famosa “serrata del patriziato” della repubblica romana, che ciclicamente assistiamo a prove di forza da parte dei ceti abbienti per preservare i propri privilegi; dalla Serenissima all’Inghilterra della Magna charta libertatum, gli esempi nella storia abbondano, ed essendo il calcio una rappresentazione plastica della realtà sociale, era solo questione di tempo che i club più ricchi alzassero ulteriormente l’asticella. Anzi, paradossalmente vedendola dalla prospettiva di questi club, il discorso potrebbe anche filare, ma come cantava De André (fortunatamente) al loro posto non ci sappiamo stare.
Questi club stanno semplicemente difendendo i propri interessi in maniera anche abbastanza coerente – per cui il merito sul campo lascia il posto al censo, come succede in tanti altri ambiti della nostra quotidianità – e dopo aver tirato a dismisura la corda con l’UEFA che negli anni gli ha concesso tutto (come dimostra la grottesca gestione del Fair-play finanziario) adesso semplicemente non hanno più bisogno della stessa UEFA, e pazienza se fino a pochissimo tempo fa il presidente (ormai ex) dell’ECA Andrea Agnelli dichiarava il contrario: guardando il suo albero genealogico non dovremmo meravigliarci di nulla.
Perché quello che si sta consumando intorno alla vicenda Superlega europea non può essere definito di certo un fulmine a ciel sereno, il calcio non è stato certamente ucciso domenica scorsa, ma anzi paradossalmente sembra giunto al suo approdo più naturale. Ci troviamo a bordo di un mezzo che corre ad altissima velocità e non ha modo di potersi fermare pena la sua implosione, un po’ come nel film “Speed”, e non c’è altra soluzione per dei club indebitati o esposti con le banche (come lo sono buona parte dei club fondatori) di rilanciare con un progetto simile, togliendosi di torno la figura ingombrante dell’UEFA, vista (non senza fondate motivazioni) alla stregua di un pappone che lucrerebbe sui club senza rischiare nulla, e con l’effetto collaterale di far solidarizzare con essa tanti innocenti amanti del calcio, un po’ ingenui e un po’ smemorati. È il capitalismo, bellezza.
Ma per quanto si possa essere ingenui e romantici, leggere da quegli stessi quotidiani che hanno violentato la nostra passione sottoponendoci a una feroce rieducazione asettica con i loro articoli sulle plusvalenze, sui fatturati e la necessità degli stadi di proprietà, che con la Superlega il calcio diventerebbe semplicemente un affare economico è un insulto alla nostra intelligenza! Non è per colpa della Superlega europea se i biglietti delle partite di Champions League e dei big match di campionato hanno da tempo tariffe esorbitanti e fuori da ogni logica; non è colpa della Superlega se il calcio è diventato un hobby per sceicchi e fondi speculativi, se i procuratori fanno il bello e il cattivo tempo minando la serenità dei vari club, se la forbice tra i top-club e tutti gli altri si è divaricata come non mai e tanti altri fendenti che hanno sgonfiato il pallone, fino a farlo diventare una pantomima di quello amato da tante generazioni. Decidere di parteggiare per una delle parti in causa corrisponde grossomodo a quelle elezioni francesi in cui il ballottaggio era tra Macron e la Le Pen…
Le curve, prima di cominciare a intonare il “De profundis” e di arrotarsi su frasi fatte presto smentite dalla pratica, avevano messo in guardia, ma non conveniva a nessuno ascoltare e il risultato ora è sotto gli occhi di tutti: chi prima snobbava gli ultras e le loro prese di posizione, ora si ritrova a sbraitare e a chiudere la stalla dopo che i buoi sono già scappati. A questo punto che se lo portino a casa questo pallone con paillettes e strass, con tutte le tv, il giro di scommesse e il caro-biglietti, che noi in qualche modo ci arrangeremo come abbiamo sempre fatto, sopravviveremo anche se non ci saranno le stelle da milioni di followers sui social nei nostri campi, se non ci saranno più quelle sfide con i classici squadroni che facevano mobilitare intere cittadine e il livello tecnico calerà facendo perdere molto appeal al nostro calcio.
Per usare un’espressione molto in voga in questi giorni potrebbe essere un “rischio ragionato”: lasciare andare per la propria strada chi ha ancora il coraggio di difendere questo carrozzone e alle ragioni del cuore e della passione preferisce quelle del portafogli e del gossip. Abbiamo gridato per anni che il calcio inteso in questo modo non ci apparteneva e ci faceva “Sky-fo”. Che senso ha piangere sul latte versato o fare di tutto per inseguire una fantomatica età aurea che in realtà non è mai esistita, fornendo in questo modo degli invitanti assist a chi vorrebbe liquidare la nostra opposizione come semplice e inguaribile nostalgia? A prescindere dal rientro o meno di questa protesta dell’élite calcistica e di tutti bizantinismi dietro le quinte, la strada ormai è tracciata e pazienza se anche questa volta ci tocca giocare di rimessa. Non ha senso stare al capezzale del malato sperando in una sua miracolosa guarigione.
Ricordiamoci piuttosto cos'è che ci fa davvero impazzire d'amore per questo gioco, e certo, dopo più di un anno di pandemia non è semplicissimo, ma ci si può provare: è per caso il vedere per forza la propria squadra affrontare le big? Mah. Noi nella nostra memoria abbiamo scolpite le sfide-salvezza e quelle per la promozione, i derby infuocati in casa e in trasferta che ti fanno stare con lo stomaco chiuso per settimane e ti fanno litigare il lunedì a scuola o al lavoro. Le vittorie in rimonta e le lacrime per sconfitte clamorose e inaspettate. Tutte cose in cui Juve, Milan e Inter non c'erano. Il senso di appartenenza, perché il calcio non è una passione che si riduce alla qualità dello spettacolo sul campo, ma accende mille recettori diversi nell'animo umano. E questa non è affatto nostalgia: di tutto questo ne vogliamo ancora, ne vogliamo di più.
Il punto non è quindi lagnarsi di quello che fanno i ricchi, ma mettersi al lavoro per coltivare un'alternativa migliore, che alla lunga renda inutili e stucchevoli i loro progetti, più di quanto già non lo siano (perché la formula della Superlega, in realtà, sembra aprire le porte soprattutto alla noia, proprio calcisticamente parlando). Non appena la morsa della pandemia si allenterà e non sarà più pericoloso ammucchiarsi sugli spalti, riaffermiamo che è lì che si sta bene, che ci si può esaltare. Che non si può passare la vita sul divano, cazzo.
Che juventini, milanisti e interisti schifati dalla Superlega tornino a riempire gli spalti di provincia. Che i ragazzini e le ragazzine mollino, almeno per qualche ora, cellulari e videogames e vengano a farsi due birre in gradinata. Che i prezzi dei biglietti siano popolari. Che la repressione allenti almeno le sue maglie più assurde. Queste sono tutte cose che non succedono da sole, non vogliamo essere degli illusi ottimisti: sono tutte cose per cui, se è vero che ci teniamo così tanto, bisognerà lottare, esporsi, ma che possono essere addirittura favorite dal fatto che i super-ricchi del pallone diventino entità sempre più lontane, eteree, inafferrabili. Anonime e fredde. Dal fatto che la “bolla” di grandi interessi si sgonfi o almeno si trasferisca altrove.
Sia chiaro, la Superlega ci fa schifo a tutto tondo, in ogni suo aspetto. Ma se ci proponessero di fare a cambio con stadi di provincia col tutto esaurito, treni speciali che partono in trasferta, generazioni che si legano ai colori della propria città, o anche, non meno importante, squadre ad azionariato popolare che aggregano migliaia di persone portando davvero in alto un modello di calcio rivoluzionario, beh, allora si potrebbe davvero dire che non tutti i mali vengono per nuocere.
Giuseppe Ranieri
Matthias Moretti