Sebbene sia indubbiamente in corso un’operazione che tenda a svilirlo, il 25 aprile – nonostante tutto e tutti – resta una data imprescindibile della nostra storia che, fuggendo alla tentazione di un’analisi retrospettiva a base del senno del poi, ha forgiato i destini del nostro paese… ma non solo.
Infatti, a livello globale, oltre alla liberazione dal nazifascismo dell’Italia, in quella stessa data si festeggia anche un altro processo di liberazione nazionale, quello del Portogallo (e delle sue ex colonie), avvenuto nel 1974 e passato alla storia col nome di Rivoluzione dei Garofani, quando l’ala progressista delle forze armate pose fine all’“Estado Novo”, una delle dittature meno conosciute nella storia dell’Europa contemporanea, ma allo stesso tempo longeva.
Ovviamente, anche il mondo del calcio lusitano si trovò ad avere a che fare con la dittatura di Salazar prima e di Caetano dopo, che sfruttò a ogni livello l’ascendente del pallone per accrescere la propria popolarità non lesinando i toni meramente propagandistici (non a caso il Portogallo di Salazar veniva definito il paese delle tre “F”: Fado, vale a dire la musica popolare portoghese, Fatima luogo dell’apparizione della Madonna a tre contadini e sede del santuario, e Futebol), pur non cedendo rispetto alle proprie convinzioni. A tal punto che i calciatori si potevano allenare solo nel tardo pomeriggio, dopo aver svolto dei lavori ordinari durante la giornata, visto che non c’era ancora il professionismo.
Ad esempio, il Benfica che durante la dittatura era la squadra più blasonata, potendo fregiarsi anche della vittoria di due Coppe dei Campioni, e considerata (erroneamente) la squadra più vicina al regime –nonostante la sua origine popolare – fu costretto a cambiare il proprio inno dal titolo “Avanti Benfica!” perché avrebbe potuto richiamare canzoni comuniste, e fu proprio Salazar in persona nel 1966 a proibire alle Águias di andare in Unione Sovietica per disputare un’amichevole contro lo Spartak Mosca.
Eppure, nonostante le presunte voci di una simpatia per il Benfica fossero infondate, dati alla mano, è innegabile che le due squadre di Lisbona trassero vantaggi dalla dittatura: infatti a esse era consentito trattenere i calciatori anche dopo la scadenza del contratto, offrendo loro il 60% di quanto proponevano altri club in nome di quella “legge sull’opzione” promulgata proprio da Salazar. Dando uno sguardo all’albo d’oro del campionato ci si rende conto che fu quasi esclusivamente appannaggio di Sporting e Benfica, con la comparsata addirittura della terza squadra della capitale, il Belenenses, che vinse un titolo. Tanto per rendere l’idea il Porto, l’altra grande del calcio portoghese, durante il quasi mezzo secolo di salazarismo vinse il titolo appena cinque volte.
Non a caso, dopo il primo tentato golpe militare del 1973 (che si svolse alla vigilia di un delicato match tra Porto e Sporting che fece dichiarare al presidente della squadra capitolina Joao Rocha: “Non si può fare la rivoluzione il giorno di Porto-Sporting”), una delle risposte di Caetano per riaffermare quanto il popolo portoghese fosse dalla sua parte e sostenesse ancora l’Estado Novo fu quella di presenziare al derby del 31 marzo dell’anno successivo a fianco dei presidenti dei due club, ottenendo gli applausi degli spettatori e il saluto dei calciatori di entrambe le squadre per quello che fu l’ultimo successo simbolico della dittatura.
Invece sull’altra sponda del Tago, quella leonina, si racconta una curiosa storia relativa proprio alla caduta del regime. Infatti, lo Sporting Lisbona si trovava in Germania dell’Est per disputare la semifinale d’andata di Coppa delle Coppe, ospite del Magdeburgo (che dopo aver eliminato la compagine biancoverde, avrebbe alzato il trofeo battendo in finale il Milan per due reti a zero), e apprese dai giornali in aeroporto quanto stava accadendo nel paese lusitano, perché tutti i voli per Lisbona erano stati cancellati e per ritornare fu necessario che Joao Rocha contattasse i vertici del MFA. In ogni caso, sono proprio i leoni biancoverdi a poter vantare di aver vinto i primi trofei del Portogallo libero vincendo sia il loro quattordicesimo campionato che la Coppa di Portogallo in un emozionante derby col Benfica.
Tuttavia, la squadra che si pose realmente in opposizione al regime non fu nessuna di quelle citate finora. Quest’onore spetta all’Associação Académica de Coimbra, la città della più prestigiosa università del paese. Infatti i fautori di questa ostilità antigovernativa furono proprio gli studenti che nel 1969 scesero in piazza per manifestare contro Caetano affinché non cambiasse i regolamenti universitari e per ottenere una maggiore democratizzazione delle istituzioni, trovando l’appoggio di gran parte del paese. Le conseguenze non tardarono ad arrivare e in men che non si dica l’università venne chiusa e la città controllata dalla polizia e dall’esercito. Fu in questo contesto che lo stadio divenne una grandiosa cassa di risonanza per le proteste popolari trovando una valida sponda nella “Briossa”, la squadra che appena poteva cambiava la propria casacca da nera a bianca, per poter appunto apporvi un braccialetto nero in segno di appoggio alla protesta degli universitari. In quell’anno la squadra fu protagonista di una splendida cavalcata nella Coppa di Portogallo, sbaragliando gli avversari uno dopo l’altro, compreso lo Sporting in semifinale, per arrivare alla finalissima contro il Benfica, considerato all’epoca la squadra del regime, che era conscio delle posizioni dell’Académica e pertanto gli vietò di giocare con la maglietta bianca per evitare di portare la protesta antigovernativa su quel palcoscenico. La risposta dei calciatori allora fu geniale: essi scesero in campo con la classica mantella nera indossata dagli universitari a simboleggiare la loro vicinanza agli studenti.
Purtroppo, nonostante un avvio promettente – “A Briossa” passò in vantaggio dopo soli cinque minuti – la finale ebbe un esito negativo per la squadra ribelle che fu sconfitta ai supplementari per due reti a una grazie al gol decisivo di Eusebio, ma nonostante ciò quella partita resta ancora scolpita nella memoria storica e civile del paese e del movimento calcistico portoghese che, a quanto pare, ha un rapporto più sereno e maturo col proprio passato, dittatura compresa, rispetto all’altra “figlia del 25 Aprile”, cioè proprio l’Italia. La dimostrazione si ha nel (mancato) ricordo di gran parte delle principali società calcistiche della nostra penisola in merito proprio alla giornata della Liberazione, a differenza di quanto è avvenuto in Portogallo, in cui tutti i club più importanti hanno omaggiato la Rivoluzione dei Garofani, perché evidentemente il calcio può essere ancora un collante sociale e un vettore di memoria collettiva nonché chiave di comprensione degli eventi più importanti e complessi allo stesso tempo della nostra storia, ma come dimostrano in modo opposto i due casi, bisogna volerlo…
Giuseppe Ranieri