Nonostante l’argomento succoso e il titolo roboante Dio, calcio, milizia non è il libro che ci si aspetta. Scritto da Diego Mariottini e uscito per Bradipolibri nel giugno 2015, doveva essere nelle intenzioni dell’autore la storia senza censure di Željko Ražnatović, detto Arkan.
Purtroppo non è così: o meglio, il lavoro è una lunga panoramica sulle imprese del comandante Arkan ma l’analisi si arena in superficie e aggiunge poco al dibattito sul personaggio, sulle crude vicende della Jugoslavia e sul rapporto fra militanza politica, ultras e fanatismo religioso.
Ma occorre procedere con ordine. La parte migliore è proprio il titolo, secco, graffiante ed evocativo. Una calamita per le attenzioni di chi casualmente passa in libreria e vuole saperne di più su ultras e guerre balcaniche.
Ma dopo aver scorso le prime pagine e superato l’entusiasmo iniziale, cominciano le delusioni.
Intanto le prime pagine sono una sequela di articoli tratti da diversi giornali – La Repubblica, Il Corriere della Sera e Il Secolo XIX – un espediente che usa l’autore per restituire il clima di quegli anni a cavallo fra il 1980 e il 1990 quando la Jugoslavia è in disfacimento ma è ancora unita e il “circo calcistico” diventa il luogo privilegiato in cui inizia a manifestarsi il nazionalismo xenofobo.
Ma non serve un esperto di “futbologia” per capire che i quotidiani citati nel libro non sono proprio fogli del mondo delle curve e offrono una visione distorta della mentalità ultras, puntando tutto sulla criminalizzazione di queste realtà. Piuttosto sono grandi testate nazionali che trattano la questione calcio e tifoserie con un pizzico di snobismo e non poca superficialità, per cui un ultrà è tendenzialmente un teppista, spesso un criminale violento e frustrato con comportamenti anti-sociali.
E non basta l’outing dell’autore sulla difficoltà di reperire materiale e fonti presente nell’introduzione al libro, per giustificare questa scelta che mina dalle fondamenta Dio, calcio e milizia.
Insomma una chiave di lettura mainstream che non aiuta la comprensione del fenomeno ma che piuttosto allontana dal capire chi fosse Arkan e cosa significava il calcio al di là dell’Adriatico.
A non funzionare però è soprattutto la struttura: i capitoli non seguono una scansione temporale e sono continui i flashback, che però non rendono la lettura più agevole o accattivante.
Confondono invece di dare ritmo, appesantendo lo scorrere e l’evolversi della vicenda che resta poco chiara, torbida e offuscata.
Arkan è prima un gangster affermato, poi torna a essere un rubagalline dell’hinterland belgradese, poi uno spietato sicario dei servizi segreti, poi di nuovo uno dei più noti rapinatori di banche europei, passando per essere un capo-ultras, un gelataio e un pappone. La sua figura si confonde e diventa quasi un folk devil, capace delle più nefaste imprese di quegli anni, dall’omicido di Olaf Palme alla morte di dissidenti kosovaro-albanesi, passando per crudi fatti di cronaca nera.
Fa sorridere ma anche un po’ riflettere, che nella prima parte del testo Arkan venga “lombrosianamente” definito come “mente criminale congenita”, in barba alla letteratura scientifica e non sull’argomento.
Insomma per l’autore, Željko Ražnatović è un predestinato dell’illegalità che conosce per la prima volta il carcere a 14 anni, nonostante sia figlio di un militare e provenga da una famiglia agiata. Ripudia il suo benessere e sceglie una vita tumultuosa, scandita nei fatti dalle carcerazioni. Prima di diventare maggiorenne infatti, Arkan conosce una seconda volta il riformatorio a 17 anni, poi compie un tour per le carceri della vecchia Europa, dal Belgio all’Olanda passando per San Vittore e la Svezia, come un personaggio da “gioventù bruciata”, passata sovente dietro le sbarre.
Le imputazioni sono inizialmente di piccoli furti e borseggi ma proprio il riformatorio rappresenta l’opportunità per conoscere altri giovani criminali e far affinare le attitudini delinquenziali di Željko. Col tempo infatti diventano le rapine il pane quotidiano del giovane serbo, proprio grazie alle conoscenze coatte del carcere.
Nel libro non manca anche la parte sui celeberrimi scontri del 13 maggio 1990 fra ultrà delle Stella Rossa e Dinamo Zagabria, con protagonista in campo, fra gli altri, un giovane Zvonimir Boban, né il famoso striscione esposto dalla Curva Nord della Lazio per commemorare la tigre dei Balcani.
A sorpresa però la parte più riuscita del lavoro è quella su Franjo Tudjiman, una sorta di Arkan croato, diventato poi primo presidente della Croazia indipendente. Qui c’è un salto di qualità anche a livello di fonti: spesso viene citata la rivista Vreme, che è serba ma è conosciuta per essere una voce discreta e libera nel panorama ex-jugoslavo.
E proprio la storia del Supremo – il soprannome di Franjo – è analizzata con maggiore dovizia, senza dimenticare le connessione della famiglia del presidente con la malavita del Brenta e in queste pagine non si scade mai nella banalità, né nell’agiografia.
Non poteva mancare invece un capitolo “gossipparo” sulla storia di Svetalana detta “Zeza”, cantante serba di turbofolk, vedova molto discussa di Arkan.
È lei al centro della narrazione di uno dei capitoli finali del libro, fra turbofolk serbo, amore criminale e kitsch balcanico, non senza dimenticare il successo di cui gode ancora oggi la vedova-cantante.
Insomma per chi è veramente a digiuno dell’argomento la lettura potrebbe risultare interessante mentre per chi, anche sommariamente, conosce le vicende – calcistiche e non – della terra del Maresciallo Tito, il consiglio è di girare alla larga da Dio, calcio e milizia. Per evitare delusioni estive da bibliofili o da fanatici ultrà.
Filippo Petrocelli