Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri.
Romain Gary, Educazione europea, 1945
L’Italia s’è desta
Con la partenza del campionato europeo, si innesca in automatico quel processo di canoniche abitudini di chi guarda le partite degli azzurri: scagli la prima pietra chi non ha mai aderito ai più svariati rituali fantozziani, seguendo qualsiasi tipo di beneaugurante scaramanzia.
Il tifo accantona qualsiasi nesso di razionalità, e quando nei teleschermi risuona l’inno di Mameli e a correre dietro la palla sono gli azzurri, improvvisamente sul suolo nazionale ci sentiamo simili, tutti legati in maniera indissolubile da un cordone ombelicale che per 90 minuti restituisce un riscatto morale alle difficoltà del quotidiano.
È quel lato di folle ma sana illogicità che ci spinge a seguire questi avvenimenti e a sentirci uniti al di là di ogni grado sociale, mossi da una pulsione inconscia che ci unisce sotto un’unica bandiera.
Ci sentiamo simili, solo perché abbiamo lo stesso registro linguistico - anche se con accenti differenti – lo stesso passaporto e presupponiamo di essere dotati di una spiccata inclinazione culinaria rispetto al resto del mondo. Insomma, siamo legati a dei clichè che hanno nel tempo eretto un comune senso di appartenenza e sedimentato la convinzione di essere tutti fratelli d’Italia; anche se – ad onor del vero – per l’attuale ordinamento, nascere sul suolo italiano, non è sufficiente per essere considerato tale.
“Fatta l’Italia è tempo di fare gli italiani”, il senso di appartenenza si diffonde con la nascita delle nazioni, ma la massima di D’Azeglio poggia su un terreno franoso: essere italiani, vuol dire poco o niente. La retorica ridondante sul valore intrinseco degli abitanti della penisola, sulle loro capacità a dare il meglio nei momenti più bui è un mantra che risuona spesso nella grancassa della comunicazione politica e televisiva, ma un concetto costruito sul nulla. Ritenere di avere delle qualità legate alla cittadinanza è un tentativo sciovinista di plasmare le coscienze su un’apparente identità comune.
La capacità di guardare il mondo con gli stessi occhi è molto più importante che conoscere l’origine di una persona: si scopriranno molte più punti di contatto con soggetti provenienti da un altro emisfero piuttosto che con il proprio vicino di casa. Basti pensare che erano italiani anche Matteotti e Mussolini, Totò Riina e Giovanni Falcone e sulla base di cosa dovevano sentirsi accomunati?
La storia ci insegna a guardare con spirito critico questi aspetti, a controllare la sfera emotiva perché il concetto di identità - quale insieme di presunte caratteristiche che accomunano un gruppo di persone in un territorio circoscritto - è il prodotto di una mistificazione costruita con l’obiettivo di innalzare una barriera identitaria: marcare la contrapposizione tra noi e loro. Le nazioni non hanno nulla di naturale e per citare lo storico Eric J. Hobsbawm, sono i nazionalisti a crearle, ancorandosi a una «tradizione inventata» che forgia lo spirito di un popolo sulla base di determinati attributi comuni che, nell’immaginario collettivo, sono ritenuti immodificabili.
Il territorio in cui viviamo non è immutabile: “lo stivale” è solo il risultato di un processo di continua trasformazione in cui però i germi nazionalisti hanno diffuso un credo dalle sfumature nebulose che considera italiano chi ha la pelle chiara e parla questa lingua.
Sono le grandi narrazioni che sono state tramandate, ma rimangono storicamente illogiche. Il Trattato di pace di Parigi del 10 settembre 1919 - dopo la Grande Guerra - ridisegna i confini dell’Italia, annettendo una consistente fetta di popolazione che include anche sloveni, croati e abitanti di lingua tedesca, che coabitano da secoli quel lembo di terra, indipendentemente dai fattori linguistici. Ma costruire uno Stato-nazione allontana la possibilità di far convivere gli elementi eterogenei, non permettendo uno spazio per altre identità che devono essere espulse o assimilate in maniera coercitiva, grazie a una serie di azioni mirate all’italianizzazione coatta delle minoranze.
La nazione è sempre immaginata con dei confini, al di là dei quali vi sono altre nazioni; sovrana, perché il concetto si maturò in epoca illuminista in cui la libertà è stata considerata un grande ideale; infine comunità poiché, malgrado le disuguaglianze e gli sfruttamenti che avvengono al suo interno, la nazione viene vissuta sempre in un clima affettivo.
Costruire il nemico
Utilizzare lo sport come veicolo a sostegno del progetto irredentista è la strategia che il fascismo rintraccia per consolidare il senso di appartenenza nazionale. Mussolini percepisce, prima di molti altri, che il calcio può essere un “apparato ideologico” che permette alle masse di interrogarsi sulla loro identità e riconoscersi sotto un’unica bandiera.
Le zone annesse all’Italia rappresentano non solo una fucina di campioni, ma anche la cerniera tra lo stato e i territori italianizzati. L’Unione Sportiva Triestina che nasce nel 1918, all’indomani dell’annessione della città al Regno d’Italia, costituisce la prova tangibile di un modello che funga da “modello dell’estetica fascista”. Tra i protagonisti che contribuiscono successi della nazionale svetta Luigi Colàusig - meglio conosciuto come Colaussi - figlio di quel processo di coercizione linguistica che ha forgiato l’italianità. Si può affermare che, con il regime, lo sport veste la camicia nera: la costruzione identitaria italiana passa anche per i successi nei Mondiali di calcio del 1934 e il 1938 quest’ultimo vinto alla vigilia della promulgazione leggi razziali che, nei fatti, distruggeranno l’identità degli altri.
Il nazionalismo ha inculcato nella mente di ognuno, anche del più mite tra i cittadini, una realtà immaginaria, trascinata da un “sentimento comune” che ci emoziona e che ci appartiene. Una percezione di una realtà fittizia creata artatamente da uomini per codificare dei segni distintivi nei quali riconoscersi e dai quali distinguersi dagli altri. La costruzione identitaria ha edificato un credo ritenuto immodificabile, un diktat voluto per l’unità e l’omogeneità linguistica e culturale di un popolo. Sostenere la nazionale di calcio rimane un piacere sportivo, ma occorre restare vigili ricordando che, anche dietro una apparentemente semplice partita, si nasconde spesso il tentativo di affermazione delle disuguaglianze: un bluff valido a costruire un terreno comune ma soprattutto utile a costruire dei nemici.
Pierluigi Biondo