Negli ultimi anni abbiamo letto e recensito diversi libri sui Mondiali, ribattezzati anche della “i Mondiali della vergogna”, di Argentina ‘78, segno che il loro contesto politico, sociale e sportivo li abbia resi terribilmente ed eccezionalmente “affascinanti” agli occhi delle penne nostrane. Il bellissimo La storia balorda del Ballestracci e il sontuoso Uccidi Paul Breitner di Pisapia, giusto per citarne due, ne sono un palese esempio. Sia chiaro che di “affascinante” nell’eliminazione sistematica di qualsiasi oppositore politico e nell’istituzione di centri di detenzione e tortura, per di più a pochi passi dallo stadio (il Monumental) del trionfo argentino non c’è proprio nulla, ma solo un’infamia senza fine per una junta militare sostenuta da tutto il blocco dei paesi anticomunisti e occidentali e addirittura in parte dall’URSS, che presa alla gola da rapporti di dipendenza commerciale non si schierò apertamente contro quel regime militare e fascista che dominava il paese da almeno due anni, e si trasformò in una delle più efferate dittature sudamericane (a differenza tra l’altro di quello che fecero i sovietici pochi anni prima con Pinochet).
Questi libri servono a tanto, con le loro trame avvincenti che legano politica, malaffare, dittatura, resistenza e sport ove si concentra il sostrato del mondo, servono ai tanti che vorrebbero sotterrare quella vicenda torbida e a rinfrescare la memoria, molte volte sopita, di un paese che davanti alla bruttura e al terrore di quel periodo tende a sminuire e a condonare gli orrori dei militari e dei fascisti. Serve a far sì che nei secoli si ricordino i nomi, i cognomi, chi era da quella parte sbagliata della storia e chi dall’altra, serve a tracciare un solco, il solco dell’umanità.
Ed ecco il bel libro di Raffaele Cirillo, Il gioco e il massacro, edito da Fila37, che tenta proprio di far questo: che si ricordi la follia omicida, il simposio calcistico, la macchina repressiva, e l’orgoglio umano e sportivo per le vicende che sono sapientemente raccontate nel libro. Ma se si limitasse solo a questo il libro perderebbe forza, di fatto la storia e la letteratura hanno già scoperchiato le trame, il contesto di quei mesi estivi del ’78, e l’autore ci mette del suo nei capitoli del libro andando a indagare oltre la cronistoria del percorso argentino a quel Mondiale, le storie intrinseche a quel gruppo di persone e di uomini, e tracciando i profili umani e politici (e calcistici) di alcuni di loro.
È un libro dove le dicotomie sono forti, come è ossimorico il contesto, la gioia della vittoria nel dolore della sopraffazione. Le vicende calcistiche sono belle e particolari; il capitolo iniziale è per il sottoscritto in particolare una chicca. Vi si descrive la lotta per il posto da titolari di due dei più forti portieri che la storia calcistica argentina abbia conosciuto, Hugo Gatti e Ubaldo Fillol (portieri agli antipodi per stile e carattere). La spunterà quest’ultimo regalandosi alla storia del ruolo, con le prestazioni eccezionali con addosso la sua fantastica maglia verde numero 5. O la storia di chi ha detto No! a quel mondiale per orgoglio patrio e per non compromettere la sua dignità: è la storia del “lobo” Carrascosa. Le dualità e i parallelismi continuano e rendono il libro avvincente, vedasi approfondimento tra chi abbia realmente scoperto il “calcio totale” tra il famoso Rinus Michels e il sottovalutato Ernst Happel. O anche il parallelismo filosofico tracciato tra Cesar Menotti e João Saldanha, quest’ultimo sì epurato dalla giunta militare brasiliana perché di dichiarata fede comunista. E di questa scelta del “progressista” Menotti di non condannare apertamente la junta o allontanarsi dalla nazionale argentina, ma di dare un segnale al governo di Videla e soci come viene raccontato in un profondo e lacerante capitolo, in cui “el Flaco” Menotti cerca di rappresentare le sue ragioni e di conservare così lo spirito del “calcio di sinistra”, in un dialogo fra lui e un giornalista che visse e sopravvisse ai “metodi rieducativi” che si concedevano ai nemici della patria in quel dell’ESMA. E chi crede che il Flaco abbia vita facile si sbaglia, il libro non risparmia nessuno, perché il gioco è bello ma il massacro non si dimentica. Mai.
Daniele Poma