Napoli, 27 giugno 1971, stadio San Paolo ore (più o meno) 18.40.
Dall’emittente radiofonica nazionale, il sempre troppo poco compianto Sandro Ciotti informava i radioascoltatori che al termine di una trama di gioco sulla fascia sinistra orchestrata da Braca – entrato grazie a un’intuizione di Mister Seghedoni una decina di minuti prima per lo stremato Ciannameo per quello che era l’unico cambio consentito per i giocatori di movimento – Franzon e Gori, che era riuscita a rompere l’assedio biancorosso, quest’ultimo crossava velenosamente la palla in area dove Angelo Mammì anticipava il portiere Spalazzi depositando la palla in rete, portando non solo il Catanzaro, ma l’intera Calabria e probabilmente anche l’universo concettuale del calcio di provincia del Sud in Serie A, dopo altri dieci minuti che ai presenti e a tutti coloro che avevano a cuore le sorti dei giallorossi sembrarono un’immensità.
Si concludeva con questo finale thrilling uno dei campionati di Serie B più aperti e imprevedibili di sempre, che vide addirittura uno spareggio a tre per decretare chi avrebbe dovuto accompagnare il Mantova nella massima divisione. Alla fine a spuntarla furono l’Atalanta – che sul campo neutro di Bologna sconfisse sia il Bari per due reti a zero che lo stesso Catanzaro di misura, grazie a una rete a due minuti dalla fine quando il pareggio sembrava l’epilogo più naturale per tutti i presenti – e i giallorossi calabresi che compirono un vero e proprio miracolo sportivo.
Infatti vi arrivarono da outsider con un girone di ritorno da record culminato negli ultimi tre match di campionato giocati al cardiopalma.
Per primo un anomalo quanto tirato derby con la Reggina giocato in campo neutro a Firenze, per evitare incidenti non solo tra le due tifoserie, ma tra le due cittadinanze, perché nel frattempo Reggio Calabria bruciava per le famose proteste per l’assegnazione del capoluogo, quelle del “boia chi molla”, di Ciccio Franco e di quegli oscuri sodalizi che si estesero ben presto su tutta la regione, in cui un rigore di Gori toglieva le castagne dal fuoco riacciuffando i “cugini” amaranto portatisi avanti in precedenza con Bongiorni.
Successivamente, il 6 giugno all’Ardenza di Livorno, dove i giallorossi trovarono la vittoria che consentiva di restare ancora aggrappati al treno-Serie A a due minuti dalla fine grazie a una rete di Paolo Braca che fece impazzire le migliaia di tifosi ospiti presenti… e anche due cantautori livornesi doc come i due fratelli Ciampi – soprattutto Piero – che per via di amicizie e soggiorni prolungati avevano eletto la squadra calabrese a loro prediletta.
All’ultima giornata, la classifica vedeva il Mantova ormai in Serie A con 48 punti, al secondo posto il Brescia – che aveva battuto il Bari nello scontro diretto – con 46, seguivano Bari, Catanzaro e Atalanta con 45. Il calendario aveva riservato all’ultima proprio lo scontro tra Catanzaro e Brescia in terra calabra, quella che in tanti rievocano ancora come “la madre di tutte le partite”, a sospingere i padroni di casa all’impresa, lo stadio tutto esaurito e imbandierato come non era mai successo prima che comincia a gridare all’unisono “Si va, si va, si va in Serie A” che sarebbe diventato il leitmotiv delle partite successive. Dopo un primo tempo di studio, complici anche un paio di grosse indecisioni del portiere ospite, il Catanzaro indirizzò la partita segnando due reti in sei minuti e consentendo al proprio popolo di vivere quell’emozione unica degli spareggi promozione immortalati da un inno cantato in dialetto che sui tre colli ancora adesso si conosce meglio dell’Ave Maria.
E dire che la squadra era partita con ben altre velleità, vale a dire mantenere la categoria, dopo che nella stagione precedente la squadra si era salvata all’ultima giornata grazie alla differenza reti (fu decisivo il pareggio casalingo a reti bianche all’ultima giornata contro la Reggiana che poi retrocesse) e una campagna acquisti che non lasciava minimamente presagire un exploit del genere. Anzi aveva generato diversi malumori nella piazza, visto che nessuno degli uomini contattati aveva optato per scendere in Calabria, e così il Presidente Nicola Ceravolo dovette ripiegare su due calciatori calabresi con poco appeal per i tifosi: Alfredo Ciannameo di Paola (Cosenza) e Angelo Mammì di Reggio Calabria.
Sembra quasi uno scherzo del destino che il Catanzaro e Catanzaro abbiano toccato il cielo con un dito grazie a un ragazzo dell’odiata Reggio (che tra l’altro nel campionato successivo realizzerà la rete del primo storico successo dei giallorossi nella massima divisione, nientepopodimeno che contro la Juventus che poi avrebbe vinto il campionato), e forse era proprio necessario per dare un po’ di pace a una regione martoriata non solo dal mancato avvento di quel benessere che veniva continuamente sbandierato dal governo centrale a Roma – e che in realtà camminava sopra le schiene chine per la fatica dei calabresi per cui queste formule vacue si traducevano in emigrazione, umiliazioni e sacrifici e che proprio nella riscossa giallorossa trovavano un moto d’orgoglio comunitario, un insperato sussulto di gioia, come dimostrarono le feste per la promozione in tutta la regione (finanche a Messina si festeggiò) e il bagno di folla che accolse la squadra nella tournée americana dell’anno successivo, i settori ospiti perennemente gremiti nelle trasferte al Nord, da parte di un popolo oppresso che attendeva da dieci secoli un rispetto e che si alzava sulle spalle dei ragazzi in maglia giallorossa, come affermò l’emiliano Giorgio Vignando, tra gli artefici della seconda promozione nella massima serie, chiamato il rivoluzionario per le sue idee politiche – ma anche per via del quadro socio-politico che si era delineato.
Gli avvenimenti calcistici e sociali infatti si mescolano. A fare da sfondo a questi successi vi è un’epoca tetra che il quotidiano The Observer inquadra nella “strategia della tensione”. La Calabria del post-Sessantotto ricopre un ruolo strategico negli avvenimenti più oscuri dell’Italia del dopoguerra. Il 14 luglio 1970 a Reggio Calabria scoppia una cruenta battaglia popolare innescatasi per la rivendicazione del capoluogo; la scelta, ricaduta su Catanzaro, viene recepita come un’onta inaccettabile che innesca l’intifada dei “boia chi molla” tra infiltrazioni mafiose e legami torbidi. Un periodo di forti tensioni che ha riflessi anche in campo sportivo. La scelta di far disputare il 25 novembre 1970 il derby Catanzaro-Reggina sul campo neutro di Firenze (così come quello di ritorno a giugno) ne è una prova tangibile.
A Catanzaro, qualche mese prima della vittoria di Napoli – a pochi metri di distanza da dove verrà eretta la gigantesca A – la sera del 4 febbraio 1971, l’operaio socialista Giuseppe Malacaria viene ucciso da una bomba neofascista durante una manifestazione. Nulla si è mai saputo su mandanti, esecutori e sulla connivenza tra ambienti neri e ‘ndrine. Lo “smarrimento” dei fascicoli degli atti processuali e i depistaggi hanno contribuito a insabbiare la verità sotto una coltre di oblio.
Piazza Fontana
Catanzaro negli anni Settanta è una realtà consolidata dell’eccellenza calcistica; non è solo la temibile compagine “timore del Nord” – come recita uno degli inni storici dei tifosi – che disputa stagioni di alto profilo ma ricopre ruoli storicamente rilevanti che sono stati dimenticati dalla memoria pubblica: “In detta città, si sono celebrati nel passato vari processi, di cui alcuni complessi, indaginosi e con gran numero di imputati e testi, sempre in un clima di correttezza e serenità e senza alcun turbamento delle coscienze dei giudici e dell’ordine pubblico”.
È questa la motivazione che spinge la Suprema Corte nella scelta di virare sul capoluogo calabrese come sede del processo per l’attentato di Piazza Fontana. Apparentemente una scelta meritoria per la condotta avuta quando la città nei primi anni Sessanta ospitò il maxiprocesso per la prima guerra di mafia, ma che nei fatti nasconde il tentativo di soffocare l’interesse nazionale rendendo meno agevole la presenza dell’informazione nella città dei tre colli, all’epoca difficilmente raggiungibile, ma che vide pure l’arrivo di decine e decine di “catanga”. Mille e più chilometri da Milano che hanno precluso la possibilità di poter assistere comodamente al processo, aumentando il tempo, la fatica e i costi per coloro che avevano voglia di seguire il dibattimento: “Gesù Cristo non li manda a Catanzaro i processi” è l’eloquente esclamazione di Rachele Torri, zia di Pietro Valpreda (imputata per falsa testimonianza), alla notizia della scelta della nuova sede.
Oppio dei popoli
La magia del pallone ha restituito la vanagloria a una città pervasa dal malcontento socioeconomico, avvolta dalla sfiducia verso le istituzioni che nel tempo ha rafforzato il servilismo verso i signorotti locali.
Calcisticamente la storia del Catanzaro non si esaurisce con quella cavalcata, anzi ha rappresentato il vanto dell’intero Sud capace di sovvertire lo strapotere degli squadroni, di consegnare una speranza ai popoli oppressi; la Serie A ha in qualche modo placato gli animi scontenti e sfiduciati dei cittadini nutrendoli di illusioni effimere, e il meglio sarebbe arrivato dopo, grazie a un ragazzo coi baffi, col numero 11 stampato sulla maglietta e nel cuore dei suoi tifosi, di nome Massimo che Sandro Ciotti alla Domenica Sportiva all’epoca definì uno dei migliori sinistri in Europa, ma questa è un’altra storia.
Sfogliare l’album dei ricordi attiene a quella sequenza di gesti utili a rinverdire la memoria e a celebrare un passato lontano. Tuttavia, guardare alla storia con nostalgia è spesso e volentieri l’atto compiuto da chi è scontento del proprio presente e scava una nicchia per costruire un’epoca di cui andare fiero, nell’auspicio che la storia si possa ripetere!
Giuseppe Ranieri, Pierluigi Biondo