Manca ormai poco a Tokyo 2020 (2021). Ufficialmente si parte il 23 luglio, ma tutto resta ancora sospeso: defezioni dell’ultimo minuto, infortuni e pandemia rendono grande la confusione sotto il cielo del Sol Levante.
Una cosa però è certa: la nazionale italiana maschile non avrà nessun pugile alle Olimpiadi per la prima volta in un secolo (salvo ripescaggi dell’ultimo momento). Ma non c’è da preoccuparsi perché per buona pace dei maestri che ancora storcono il naso, a rendere onore alla tradizione pugilistica italiana – vale la pena ricordare che nei giochi olimpici moderni l’Italia è la quarta potenza dopo Stati Uniti, Cuba e Gran Bretagna – ci saranno Giordana Sorrentino (51 kg), Irma Testa (57 kg), Rebecca Nicoli (64 kg) e Angela Carini (69 kg).
E questo articolo è dedicato proprio ai tanti maestri e allenatori che ancora sbuffano quando vedono una donna sul ring e al loro paternalismo d’accatto. A quelli per cui la boxe deve rimanere un affare per soli uomini. O meglio ancora a quelli per cui comunque il pugilato femminile è uno sport di serie B. A quelli che: «Sì ok, ma non sarà mai come un incontro fra due uomini, loro sì che si menano». Quelli per cui alla fine è solo un “contentino”, buon viso a cattivo gioco.
Fateci pace “amici” della vecchia guardia, il vento ormai è cambiato. E la tendenza si è invertita da tempo. Il protagonismo femminile è oggi realtà in ogni palestra. E per assurdo, il discreto momento di riscossa del pugilato – questo nuovo accenno di primavera dopo anni di profonda crisi – è dovuto proprio a loro. Alle donne pugili e alla loro determinazione.
È passata molta acqua sotto i ponti dal 2001, quando Maria Moroni otteneva il permesso di combattere nel Belpaese come prima donna professionista e l’Italia partecipava ai mondiali AIBA nella boxe dilettantistica. Ma anche da quando finalmente nel 2012 a Londra la boxe olimpica femminile diventava competizione ufficiale. Insomma l’Italia è sempre indietro, ma non è che il resto degli Stati se la passi meglio. In fondo, tutto il mondo è paese. Ma il cambiamento è una pietra che rotola spedita e cambia le cose a una velocità impressionate, con buona pace dei vecchi tromboni.
Grazie a Carini, Nicoli, Sorrentino e Testa il “sorpasso” è diventato evidente e schiacciante. E non basta tirare in ballo i soliti problemi di sistema che si sentono da anni nell’ambiente (molto veri ma poco calzanti in questo caso): potere dei gruppi sportivi militari, pochi soldi, colpe della Federazione; per loro, per Carini, Nicoli, Sorrentino e Testa, valgono le stesse identiche regole. Eppure loro sono a Tokyo e gli uomini no.
Per provare a dare una risposta, ma soprattutto per stimolare un ragionamento sulle vere motivazioni che hanno generato questa situazione – nello specifico il fallimento della nazionale maschile – ci vengono incontro due interviste recenti, una di Clemente Russo (il grande escluso di queste Olimpiadi che avrebbe anche stabilito un record con la quinta presenta ai giochi) e una di Irma Testa (la più rappresentativa delle azzurre alla sua seconda presenza olimpica).
Nell’intervista rilasciata da Russo al giornalista Francesco De Luca e pubblicata mercoledì 16 giugno su «Il Mattino», il pugile di Marcianise rievoca una vecchia storia, il verdetto scandaloso contro il russo Tishenkho a Rio 2016. Russo usa quell’ingiustizia sportiva per richiedere sostanzialmente di ricevere una wild card ed essere ripescato. Ora sicuramente in quell’incontro l’italiano subì un torto inaudito, ma rievocare quella vecchia storia – e soprattutto usarla strumentalmente per arrogarsi il diritto di essere chiamato – non sembra un’operazione corretta.
Sempre nell’intervista in questione, Russo sostiene di non aver potuto partecipare alle qualificazioni olimpiche perché aveva la febbre a marzo 2020 e di essere stato costretto a dire che aveva la gastroenterite, per non allarmare nessuno (in quel momento in Italia la situazione era oggettivamente molto complicata). Al di là delle considerazioni di merito, purtroppo infortuni, impedimenti e sciagure segnano la vita di ogni sportivo. E questo un atleta come Russo lo sa perfettamente. Quello che colpisce però in tutta l’intervista è che il pugile parla sempre e solo di sé. Della sua situazione e dei suoi problemi.
Al contrario, Irma Testa, in un’intervista rilasciata il 17 giugno a Stefano Arcobelli sulla «Gazzetta dello Sport», fa un ragionamento molto diverso. Intanto esordisce con questa frase, facendo riferimento alla nazionale femminile: «La nostra forza? Saliamo insieme sul ring, se una va bene trascina poi le altre». Poi prosegue: «Sì, è la rivoluzione della boxe italiana femminile: a Rio ero l’unica, a Tokyo saremo in quattro ed è qualcosa di pazzesco». E ancora: «Il movimento è cresciuto tantissimo, abbiamo trovato la formula vincente: è giusta la sinergia tra noi».
Insomma, nonostante i suoi 23 anni, Irma Testa impartisce una grande lezione di stile. Sviscera forse l’unico vero motivo per cui a Tokyo lei e le sue compagne saranno presenti, mentre i colleghi no. Il pugilato femminile ha fatto squadra, quello maschile no. Ora si parla molto della solitudine dei pugili e della dimensione individuale del ring, tuttavia almeno a livello olimpico, squadra e compagni sono fondamentali.
Non a caso i successi della nazionale maschile italiana – quella guidata da Damiani a Pechino e a Londra, e dai suoi predecessori e successori – si è fondato proprio su una dimensione corale e collettiva. E stupisce che Russo, pilastro di quella generazione, non sia riuscito a riflettere su questo, a guardare oltre la sua sacrosanta amarezza. Se la nazionale maschile avesse avuto il cuore di Irma Testa, magari a Tokyo ci sarebbero stati anche loro.
Filippo Petrocelli