Ogni accenno ai Giochi Olimpici è un'opportunità per i propagandisti sportivi istituzionali di prostrarsi al totem del vecchio barone baffuto. Soprattutto dopo l’assegnazione delle Olimpiadi del 2024 a Parigi, ottenuta in seguito al ritiro delle sue principali rivali.
È da almeno un secolo che le generazioni sono permeate dalla retorica de “l'importante è partecipare”, che lodiamo i valori sacri dello spirito olimpico mentre ci viene imposta l'ingombrante eredità di un de Coubertin presentato come un benevolo patriarca al quale saremmo eternamente debitori; che si cerca di inculcarci in maniera edulcorata che i Giochi Olimpici sono una festa. Non lo sono mai stati.
Il barone de Coubertin: classista, colonialista e filo-fascista
Nella sua strategia di seduzione nei confronti del CIO, il comitato promotore di “Parigi 2024” non ha mancato di moltiplicare gli elogi e gli ammiccamenti verso un de Coubertin con un curriculum abilmente ripulito delle sue “deviazioni” reazionarie. Ci hanno propinato dei ritratti agiografici che presentano l'uomo come un umanista, un pacifista o addirittura un internazionalista. Come se l'aristocratico che era non avesse interessi propri da difendere, come se fosse totalmente disinteressato al mantenimento dell'ordine sociale. Poiché il filone narrativo del buon borghese stava diventando troppo corposo e pressante, alcuni media si sono sentiti in dovere di presentare il “lato oscuro” di de Coubertin per controbilanciare questa narrazione drogata, combattuti tra la preoccupazione per il recupero della verità storica e il buon vecchio patriottismo francese dedito alla relativizzazione di ogni aspetto.
Dopotutto è stato tanto tempo fa e allora tutti erano un po' razzisti e colonialisti, giusto?
Inoltre, non avrebbe così tanti palazzetti dello sport intitolati a suo nome se non fosse una specie di fascista rispettabile. Le sue simpatie per il nazismo sono tutt'altro che uno scoop, né una sorpresa. Se è vero che non si discostava da un'élite sociale che ammirava ampiamente Hitler, de Coubertin aveva già fatto proprie le teorie razziste di Gobineau. La sua senilità ai tempi dei Giochi di Berlino del 1936, menzionata per perdonare il sostegno che diede loro, non è altro che una buona scusa. Era un uomo del suo tempo, sosterranno alcuni, ma era soprattutto un uomo della sua classe.
De Coubertin attinse al modello inglese delle Public Schools che hanno fatto dello sport una disciplina educativa a pieno titolo per formare la futura élite. Tenne per sé il disprezzo per la sua professionalizzazione che di fatto sanciva l’ingresso per la classe operaia nel mondo dello sport. A suo dire, un segno di decadenza e un attacco alla purezza sociale dello sport stesso. Perché il barone fu a lungo un sostenitore della pratica amatoriale, punto di riferimento della borghesia, da cui erano tenute separate la classe operaia, le donne e persino i popoli colonizzati. Infatti, dietro la facciata apolitica dell'ideologia olimpica, vedeva nello sport un perfetto supporto politico per la promozione degli interessi nazionalisti e colonialisti. D’altronde scrisse: “Nello scolpire il suo corpo attraverso l'esercizio, l'antico atleta onorava gli dei. Lo stesso fa l'atleta moderno, esalta la sua razza, il suo paese e la sua bandiera”. Non male per un cosiddetto cantore della “pace tra i popoli”. Per bocca del fondatore delle Olimpiadi moderne, il calcio è diventato addirittura una perfetta metafora del colonialismo: “Vorrei che aveste l'ambizione di scoprire un'America, di colonizzare una Tonchino e di prendere un’altra Timbuktu. Il calcio è la premessa a tutte queste cose […] È l'educazione ad ‘andare avanti’”.
Le Olimpiadi sono guerra!
Questo prima che diventasse ossessionato dalla crescente popolarità del calcio all'interno della classe operaia britannica e dallo sviluppo del professionismo oltremanica: “Giocato da minatori o operai nelle grandi fabbriche, gente che non passa per avere lo spirito cavalleresco, il calcio necessariamente diventa brutale e pericoloso. Interpretato da giovani bene educati, rimane quello che è, un ottimo esercizio di abilità, agilità, forza, compostezza, a cui ci si può sbizzarrire senza allontanarsi dalle regole della cortesia”. Di colpo si sentiva un po' meno sereno all'idea di vedere una squadra di proletari, col coltello tra i denti, che fa tackle all’altezza del ginocchio – o più in alto – di quei giovani borghesi così ben educati. Il Fair Play sarebbe incompatibile con la lotta di classe, o al contrario non potrebbe appianare gli antagonismi sociali? Su questo punto, de Coubertin, che poi incarnò quell’aristocrazia in declino sotto il capitalismo, ha evoluto il suo pensiero. Il calcio, trasmettendo i valori della disciplina, dello sforzo e della prestazione, finirà per essere in linea con i valori della borghesia industriale che discute sull'utilità dello sport per pacificare la guerra di classe e per difendersi dall'agitazione nelle fabbriche. “Possano la gioventù borghese e quella proletaria bere dalla stessa fonte di piacere muscolare. Questo è l'essenziale, che vi si incontrino, attualmente è solo un dato accessorio. Da questa sorgente scaturirà, per l'uno come per l'altro, il buonumore sociale, unico stato d'animo che possa autorizzare per il futuro la speranza di efficaci collaborazioni”.
Ci sono abbastanza argomentazioni per poter dire che vada al diavolo lo spirito di de Coubertin! Quanto a “Parigi 2024”, che chiama in causa la figura del barone in soccorso della sua macchina organizzativa, il comitato non prende in giro nessuno. Come ovunque, le classi popolari si prenderanno queste Olimpiadi in pieno nei denti: dietro la pubblicità della festa sportiva generalizzata e consensuale si celano l’aumento del lavoro precario, dei prezzi e dell’isteria securitaria. Se c'è un'attualità nel pensiero di de Coubertin, è questa: le Olimpiadi sono la guerra.
da Dialectik Football