Simone Biles, la giovanissima e strepitosa ginnasta statunitense, ha di recente abbandonato i Giochi olimpici in corso a Tokyo per un non ben precisato infortunio. Poco dopo la sua decisione ha però dichiarato: “ho dei demoni nella testa che non mi danno tregua, devo pensare alla mia salute”.
Michael Phelps, l'ex nuotatore marziano che ha frantumato ogni record acquatico, in questi giorni è sceso nel profondo delle sue viscere e ha scelto di raccontare al mondo intero di avere sofferto di una brutta depressione e di problematiche legate all'ansia. “Non vergognatevi, è ok non essere ok”; ha detto lui.
Tom Daley, britannico d'oro nei tuffi, ha approfittato del suo risultato per lanciare un messaggio liberatorio dal podio: “orgoglioso di essere gay e medaglia d'oro, non siamo sbagliati”.
Federica Pellegrini, che in questa rassegna ha conquistato – tra le lacrime – la sua quinta finale olimpica consecutiva, non ha mai fatto mistero di avere sofferto di attacchi di panico; proprio in acqua, proprio nel suo elemento.
Naomi Osaka, portabandiera – e, con una licenza lessicale, portaspettative – giapponese, ha perso malamente una gara apparentemente semplice per poi confessare, anche lei, di non essere in grado di gestire la pressione e lo stress.
Gli atleti qui citati sono pochi, pochissimi, in confronto a tutti gli sportivi che hanno scelto di aprirsi, di scorticarsi e scendere nel profondo di loro stessi; le Olimpiadi, in questo caso, sono un'ottima occasione per addentrarsi in una radura ombrosa spesso poco esplorata. Giusto per citare altri esempi, in rapida serie, basti pensare allo sloveno Josip Ilicic – calciatore atalantino a lungo paralizzato dalla sua depressione, salvo poi tornare alla vita e riprendersela a colpi di gomitate –, a Bojan Krkic – calciatore iberico che a causa delle sue problematiche legate all'ansia si è giocato la partecipazione a Euro 2008 –, o ancora a Marco Pantani – le cui maree gli si leggevano nello sguardo –, o a Carl Nassib – primo atleta di football americano che di recente ha sgretolato ogni tabù machista dichiarando fieramente la sua omosessualità – e così via, ci sono esempi per quasi ogni disciplina.
Questa riflessione non vuole addentrarsi solo nel poco battuto ecosistema della depressione o della salute mentale, no; tra i nomi elencati ci sono, infatti, anche quelli di atleti per cui il loro viaggio di andata e ritorno dentro le loro viscere e la propria intimità è coinciso con il coming out, in mondovisione; “abbiamo lottato una vita con con le nostre tormente”, pare dicano, “e ora che le abbiamo abbracciate, eccoci qua”.
Depressione, panico, ansia dunque, ma anche identità, forza e debolezza, morte e rinascita, legittimazione. L'essere umano oltre l'atleta, oltre la competizione, oltre quell'orribile smania di standardizzare e valutare tutto, nello sport come nella società civile. Si è quello che si è e va bene così, si è fragili e si è fatti di carne; a volte obbediente e altre volte impazzita. I demoni esistono e ogni tanto ci abitano; serve il coraggio di guardarli in faccia per addomesticarli. Questo è quello che ci piace dello sport, le storie di vita che si porta dentro e che parlano anche un po' di noi; noi reietti, noi complessi, noi aggrovigliati. O semplicemente noi stessi, pacificati con la nostra geografia molecolare, ma circondati da assolutismi che non ammettono crepe nelle loro mura a cemento stagno. Ci aggrappiamo quindi a questi semidei, perché prendano sulle loro spalle anche le nostre croci e ci elevino, ci dipingano agli occhi del mondo come degni attori e spettatori del carosello che è la vita; io – divinità pagana, figlio di un dio e di un demonio, ibrido tra la terra e il cielo – soffro, e voglio che tutti siano autorizzati farlo; io sono io e vado bene così, e voglio che tutti siano autorizzati a esserlo. Ecco il sottotesto che ci arriva dritto in pancia quando personaggi di questo tipo si raccontano; in conferenza stampa, ai microfoni di una televisione, in qualche dichiarazione social. E gli vogliamo bene anche per quella malsana tendenza a tifare la mina vagante, quello su cui nessuno scommetterebbe, per quella tensione innata a schierarsi dalla parte giusta; ché se anche uno di questi sportivi non ci è mai piaciuto immediatamente, ci si incista nel cuore quando lo scopriamo in inferiorità numerica. Perché è così, sì che è così, quando le corazze sono tolte ecco che è più facile colpire, ecco che i maestri di vita impugnano il loro infingardo spadino e iniziano a colpire nei punti scoperti; non sei portato per questo livello, dicono, un vero professionista deve sapere reggere la pressione, o ancora, la cosa più subdola – che la Osaka, per nominare un esempio fresco, ha dovuto sorbirsi –, non sei degna di rappresentarci. Della serie; quando vinci sei dei nostri, quando perdi non sei (a scelta e a seconda dell'occasione) italiano, bianco, europeo, o in questo caso giapponese (a maggior ragione perché in questo caso parliamo di una ragazza nippo-statunitense).
L'augurio quindi è che ognuno – dio, semidio, umano, depresso, omosessuale, ibrido, panicante, tortuoso – impari a convivere con i suoi fantasmi e che possa abitare un mondo in grado di nominarli, un mondo che abbia il coraggio di tirarli fuori dalla cantina in cui li ha nascosti per molto tempo. Ribadiamolo, perché è brezza pulita, quando qualcuno della caratura di questi atleti pronuncia frasi del genere, sorride un po' il cuore; prepara il terreno a chi ancora porta in grembo la tempesta ma non lo sa, a chi è ancora rannicchiato nella sua cella inquisendosi, prima di risorgere. Non sia questa, però, opera di deresponsabilizzazione: il mondo che vogliamo lo si prepara ovunque – al bar, a scuola, al cinema, al centro sociale, allo stadio –, ogni luogo di vita è laboratorio di lotta contro i pregiudizi e di costruzione di verità; quella con l'iniziale minuscola, quella sporca, ma autentica.
Francesco Fontana