Il 6 agosto 1962 la Giamaica diventava indipendente dalla corona inglese. Quel giorno, tra la strade della capitale Kingston, risuonavano le strofe “Gather together, be brothers and sisters. We're independent, we're independent. Join hands to hands, children started to dance. We're independent, we're independent” del celebre pezzo ska Foward March di Derrick Morgan.
Venerdì prossimo, 6 agosto 2021, saranno passati 59 anni da quella giornata storica per la piccola isola caraibica.
La Giamaica era entrata a far parte dei possedimenti dell'impero di britannico nel lontano 1670. Proprio in quell'anno infatti, per la precisione in data 18 luglio, era stato ratificato il Trattato di Madrid tra Londra e l'Impero iberico. Tale trattato aveva messo fine alla cosiddetta guerra anglo-spagnola durata dal 1655 al 1660.
In questi quasi sessant'anni di storia nazionale l'isola caraibica che si trova poco a sud di Cuba si è fatta notare in vari campi. Da quello musicale, pensiamo che un genere come il reggae nato e sviluppatosi proprio a queste latitudini, a quello agricolo (la maggior parte dello zucchero di canna che consumiamo al giorno d'oggi proviene proprio dalle parti di Kingston) e non ultimo a quello sportivo.
In Giamaica, proprio negli ultimi anni, sono state create squadre sportive che hanno raggiunto risultati inimmaginabili fino a poco tempo fa. Un esempio da questo punto di vista possono essere le cosiddette Reggae Girls, ovvero la squadra della nazionale di calcio femminile.
Nel 2019 il team calcistico è riuscito a qualificarsi, per la prima volta nella sua storia, alla fase finale di un Mondiale di calcio femminile che si è svolto in Francia. Le ragazze con le loro divise verde-giallo-nere non hanno neanche sfigurato troppo da un punto di vista dei risultati, nonostante l'ultimo posto del girone. Va però ricordato che, durante i sorteggi, le calciatrici giamaicane erano state inserite in un gruppo non proprio benevolo in cui avevano affrontato nazionali ben più collaudate come Italia, Brasile e Australia.
La Giamaica, però, negli ultimi anni si è fatta notare soprattutto per i risultati raggiunti negli sport individuali. Notevoli soddisfazioni sono arrivate, in particolare, con l'atletica leggera.
Ancora tutti noi abbiamo nella mente i numerosi record mondiali frantumati dal velocista Usain Bolt, nato nell'agosto 1986 a Sherwood Content, un villaggio di circa un migliaio di abitanti nella Giamaica nord-occidentale. Questo atleta è stato soprannominato Lightning Bolt (fulmine) visto che in tre edizioni dei Giochi olimpici consecutive (Pechino 2008, Londra 2012 e Rio De Janeiro 2016) ha vinto la medaglia d'oro sia nei 100 che nei 200 metri piani. In carriera Bolt si è portato a casa ben 8 medaglie olimpiche, tutte d'oro, e 14 mondiali: 11 ori, 2 argenti e un bronzo.
Nel 2017 il velocista si è ritirato dal mondo della corsa ma la tradizione della Giamaica in questa disciplina è rimasta intatta. Durante lo svolgimento dei giochi di Tokyo 2020 sono ancora numerosi i velocisti nati e cresciuti dalle parti di Kingston a portare la bandiera giamaicana sul podio a cinque cerchi.
Sabato 31 luglio, ad esempio, è avvenuto un fatto che chissà quando e se ricapiterà in futuro. Nella finale dei 100 metri femminili la Giamaica ha fatto un vero e proprio en-plein sul podio conquistando il primo, il secondo e il terzo posto finali.
Sul gradino più alto è arrivata Elaine Thompson-Herah che ha mantenuto il suo oro conquistato a Rio nel 2016 grazie ad un tempo di 10:61. Questo risultato l'ha resa la seconda donna più veloce della storia dietro l'icona statunitense Florence Griffith-Joyner, che ha ottenuto il record mondiale di 10:49 nel 1988.
Dopo la Thompson sono salite sul podio due sue connazionali. Shelly-Ann Fraser-Pryce si è infatti classificata seconda ottenendo l'argento mentre Shericka Jackson ha conquistato il bronzo. Grazie a questo risultato durante la premiazione si sono levate le sole bandiere nero-verdi-gialle e l'inno nazionale, dal titolo Jamaica, Land We Love, cantato dalla prima classificata è stato intonato anche dalle altre due atlete presenti.
Lo stesso Usain Bolt, sulle sue pagine social ufficiali, ha postato un ringraziamento personale alle tre ragazze giamaicane per il risultato ottenuto.
Una gran bella soddisfazione per la piccola isola caraibica che si appresta a ricordare un evento così particolare e sentito come l'indipendenza nazionale.
Ma l'Olimpiade in corso in terra nipponica passerà alla storia anche per alcune prese di posizione politiche, alcune delle quali sempre riconducibili alla zona caraibica. Ad esempio il pugile cubano Julio Cèsar La Cruz, dopo la vittoria ai quarti di finale della categoria mediomassimi 81kg, ha detto la frase “Patria y vida no! Patria o muerte! Venceremos!”. Il motto castrista più famoso è stato citato per portare il supporto al governo dell'Avana che sta affrontando una crisi politica interna che non si vedeva da tempo.
Nelle ore seguenti vi è stato un altro episodio che ha unito l'ambito sportivo a quello politico. La venezuelana Yulimar Rojas, dopo aver conquistato l''oro e il record mondiale nel salto triplo, ha voluto elogiare il chavismo del suo paese dopo essere stata criticata pesantemente, per le sue convenzioni politiche, dalla destra di Caracas.
Nelle ultime ore, infine, si sono ritirate fuori due parole, asilo politico, che appartenevano alla stagione olimpica della guerra fredda. La velocista bielorussa Kristina Timanovskaya non ha voluto imbarcarsi alla volta di Minsk, impaurita per la sua incolumità, dopo che aveva mostrato dissenso politico nei confronti del presidente bielorusso Aleksander Lukashenko.
La stessa atleta ha chiesto aiuto al CIO, il comitato olimpico internazionale, che però ha assunto posizioni assai ambigue sulla vicenda. Alla fine la Timanovskaya ha accettato l'offerta di asilo politico arrivatole dalla Polonia, ma anche in questo caso sorge qualche dubbio sul concetto di democrazia inteso dalle parti di Varsavia.
Insomma, ancora una volta, sport e politica, stanno tornando prepotentemente alla ribalta per cercare di trasmettere determinati messaggi in ambiti internazionali. Un qualcosa di simile era già avvenuto durante la rassegna calcistica di Euro 2020, pensiamo solamente alla questione legata alla questione del mondo LGBT in Ungheria.
Nel mega evento del Vecchio Continente queste prese di posizioni erano state messe a tacere, dalla “democratica” UEFA e dal suo presidente Ceferin, in ogni modo possibile. Chissà che nei giorni dei giochi a cinque cerchi, che nacquero proprio in quell'antica Grecia “culla della democrazia” per unire i popoli di tutto il mondo, queste “voci fuori dal coro” non subiscano la stessa censura.
Roberto Consiglio