Sono state le Olimpiadi nell’epoca del Coronavirus, rimandate nel nome dello spettacolo che è stato comunque monco a causa dell’assenza di spettatori. Sono state le Olimpiadi nell’epoca del ‘woke’, della paura nei confronti di nuovǝ potenzialǝ ‘Smith e Carlos’, di gesti eclatanti che potessero scuotere la comunità. Sociale e olimpica. Sono state le Olimpiadi che hanno rimesso al centro il tema della salute mentale e dello sport, perché non è vero che basta praticarlo per stare bene. Sono state le Olimpiadi nelle quali abbiamo soppesato ogni risultato che avesse la bandiera italiana, ogni medaglia o la sua assenza, con l’obiettivo di far quadrare un bilancio o trovare il pelo nell’uovo a ogni costo. Eppure non è per forza una medaglia a definire la caratura di una vittoria.
Sono state le Olimpiadi di tante storie dove il primo successo è stato esserci: partecipare ancora una volta. Sfidare quell’oggetto, spesso così ingombrante, chiamato ‘carta d’identità’ e trasformarlo in uno stimolo per vivere ancora… e poi chissà. Raccontiamo alcune di queste storie, restituiamo loro la giusta dimensione e l’idea che nello sport, come nella vita, nulla è scontato e il limite tra la vittoria e la sconfitta non si misura in metalli.
Sono state le Olimpiadi di Jesús Ángel García Bragado che, alla veneranda età di 51 anni, ha partecipato alla 50 km di marcia per l’ottava edizione consecutiva ed è un record assoluto per l’atletica. Ha iniziato a 21 anni, a Barcellona: era una promessa della marcia che gareggiava in casa. Due anni dopo, a Stoccarda, sarebbe diventato campione del mondo. Ora corre con gente che ha la metà dei suoi anni. Nella classifica finale ci sarà scritto ‘35° posto’ ma, volendo mettere un asterisco, si potrebbe scrivere questo: “ha marciato otto volte per 50 km ai Giochi e in sette ha visto la linea del traguardo, ad Atlanta fu squalificato”. Non ci sarà mai una medaglia olimpica, pesa quella di legno che ottenne a Pechino a quasi 40 anni, ma ci saranno chilometri percorsi per tutta la vita e tante scarpe logore da appendere a una fila infinita di chiodi.
Sono state le Olimpiadi di Kim Yeon-koung, icona dello sport coreano e pallavolista di livello mondiale. Vincitrice sia in Asia sia in Europa, a livello di club, e capace con le sue schiacciate di portare la Corea del Sud a pregevolissimi risultati a livello internazionale. A livello continentale gareggiando sullo stesso piano delle ingombranti vicine giapponesi e cinesi, a livello olimpico con i migliori tornei della pallavolo coreana dagli anni Settanta (bronzo a Montreal ’76). A Tokyo, come a Londra, è stata medaglia di legno ma le vere lacrime ci sono state in sala stampa, quando ha annunciato il suo addio alla nazionale. Un velo di tristezza che ha coperto le compagne, le fan e le avversarie. A cominciare da quella Tijana Bošković che sul campo le ha tolto il bronzo e, a fine gara, ne ha riconosciuto l’immenso talento.
Sono state le Olimpiadi di Shelly-Ann Fraser-Pryce e Allyson Felix. Gli ultimi quindici anni della velocità al femminile hanno le loro firme incise sulla piste di tutto il mondo: il loro curriculum di successi e trionfi sarebbe troppo lungo da elencare qui in pochi secondi. Il loro rapporto con le Olimpiadi è strepitoso e a Tokyo si è rafforzato: Fraser-Pryce, a quasi 35 anni, ha vinto altre due medaglie (e c’è anche un 4° nei 200 metri) arrivando a un totale di otto medaglie su quattro edizioni disputate. Felix ha fatto persino meglio: 5 olimpiadi, 11 medaglie di cui 7 d’oro. Nell’atletica meglio di lei solo tre mostri come Usain Bolt, Carl Lewis e Paavo Nurmi. Nessuna delle due ha annunciato il ritiro: che puntino a gestire questi tre anni per concludere in bellezza a Parigi?
Sono state le Olimpiadi di Sue Bird e Diana Taurasi: splendide quarantenni o quasi, dominatrici del basket mondiale da vent’anni. Icone sul campo e attivissime nelle lotte per i diritti LGBT+: entrambi i loro matrimoni, rispettivamente con Megan Rapinoe e Penny Taylor, hanno inciso nel dibattito pubblico statunitense sul tema. Unendo le loro bacheche si potrebbe riempire un museo eppure non ne vogliono sapere di smettere. Questa è stata la loro quinta olimpiade: cinque tornei di basket, cinque ori. Non un dominio: uno strapotere, cosa che per certi versi non è riuscita nemmeno al ‘Dream team’. Probabilmente mai visto, difficilmente ripetibile perfino per le compagne. Compresa Breanna Stewart che, di Olimpiadi, ne ha già vinte due e avrebbe tutte le carte in regola, pure quella d’identità, per raggiungerle e superarle.
Sono state le Olimpiadi di Oksana Chusovitina. Ginnasta dalla vita sportiva incredibile che comincia nel 1991, ai mondiali di Indianapolis (due ori e un argento): aveva 16 anni e c’era ancora l’Unione Sovietica. Da lì a Barcellona trascorre un anno: quello in cui l’URSS si dissolverà a livello politico, e a livello sportivo giungerà in terra catalana con la strana formula della Comunità degli Stati Indipendenti. Sarà la prima di otto olimpiadi che da lì in poi disputerà con l’Uzbekistan, suo paese d’origine, e la Germania con la quale gareggerà a Pechino (un argento) e a Londra come ringraziamento per aver curato suo figlio dalla leucemia. Chusovitina a Tokyo ha gareggiato per l’ultima volta, nella sua disciplina: un ultimo volteggio che ha commosso tutta la ginnastica mondiale e le ha regalato una standing ovation.
Sono state le Olimpiadi di László Cseh. Un altro vecchio squalo, visto che parliamo di nuoto, che ha annunciato il suo ritiro: lo ha fatto dopo l’ultima finale olimpica, quella nei suoi 200 metri misti. La quarta finale su quattro tentativi, a Rio c’era ma non partecipò in quella disciplina. Il 7° posto lo ripaga perché quello che voleva era la tranquillità: partecipare col sorriso, stare lì nell’acqua a fare quello che ha sempre fatto. Nel suo palmares gli è mancato un oro olimpico, che ha cercato sfidando due come Ryan Lochte ma soprattutto Michael Phelps, ma il suo rimpianto non è quello bensì non impegnarsi per partecipare. Adesso lascerà le piscine e lo sport per un po’ di tempo: forse per poco, forse per tutta la vita. Ha preferito quella tranquillità con cui ha nuotato nelle vasche giapponesi.
Sono state le Olimpiadi di tante altre storie che non ho menzionato, perché si è già detto tanto in maniera inopportuna (ogni riferimento a Federica Pellegrini e Aldo Montano è puramente casuale), e altrettante che non conosco. Sono state e saranno sempre le Olimpiadi di chi gareggia perché punta a esserci, di chi gareggia perché non riesce a non essere competitivǝ, di chi vive in maniera complessa-ossessiva il rapporto tra vittoria e sconfitta, di chi misura e si misura ogni giorno. Sono state e saranno sempre le Olimpiadi di persone come noi perché c’è semplicemente questo dietro una prestazione. Qualunque esso sia il risultato finale e qualunque sia il peso che possiamo provare dentro. Peso che da fuori, dietro uno schermo, non abbiamo modo di conoscere finché non ce lo rivelano.
Giuseppe Barbato