È stata una delle notizie di “mercato” dell'estate, di un'estate in cui peraltro i trasferimenti eccellenti non sono certo mancati. Ma a livello di eco mediatica, nazionale e internazionale, l'approdo di Borja Valero al Centro Storico Lebowski non è stato da meno rispetto ad altri affari conditi da cifre a molteplici zeri, lacrime di coccodrillo e polemiche varie.
Una prima riflessione si affaccia quindi spontanea: ce n'era davvero bisogno, un bisogno diffuso tra le masse di persone appassionate di calcio e anche nel mondo massmediatico, che evidentemente è ormai alla ricerca disperata di storie “belle”, o “diverse”, da raccontare, in un mondo sempre più prevedibile e plastificato. La reazione di stampa, tv, social e quant'altro infatti è stata davvero sorprendente: in casa grigionera ci si aspettava un'ondata di attenzione forte, ma non così tanto.
In fondo non si tratta del primo caso di giocatore di Serie A che va a finire la carriera tra i dilettanti. Certo, di solito il percorso è più graduale, magari si approda nelle serie inferiori oltre i 40 anni, mentre Borja ha fatto un salto diretto, passando in una sola estate dalla Serie A alla Promozione, e a un'età in cui tutto sommato un calciatore è ancora competitivo. Ma non è nemmeno questo il punto. Perché questa vicenda non racconta semplicemente della voglia di un campione di continuare a tirare due calci al pallone, ma di un'adesione a un progetto che ha valori e obiettivi ben precisi, proprio in anni in cui il calcio sembra sempre più diventato materia per commercialisti, manager, agenti di borsa e calciatori che passano di squadra in squadra come fossero attori che vanno a girare un nuovo film, bypassando ogni senso d'appartenenza. Questo bisogno di una storia “vera” era evidentemente spasmodico e molto diffuso, vista la reazione entusiasta di una quantità esorbitante di calciofili, che hanno così avuto modo anche di conoscere la compagine fiorentina.
Ma questo bisogno e questa reazione generano anche un grande equivoco. Sia sulla stampa che nei commenti social di molti utenti domina in lungo e in largo una narrazione che pone l'accento sul “romanticismo” di questo gesto. Che in parte si radica nel (reale) presupposto per cui Borja si è talmente affezionato alla città di Firenze da volerci rimanere a vivere e farla diventare la città dei suoi figli. Una cosa chiaramente stupenda. Ma il Centro Storico Lebowski di “romantico” ha ben poco. Perché è un concetto che viene usato, da alcuni volontariamente e da altri no, in una chiave del tutto reazionaria. Il “nobile gesto” cavalleresco, il tentativo di ricostruire un presunto passato mitologico in cui il calcio era roba per puri di cuore, che ovviamente non è mai esistito. Quasi il gesto di carità del grande uomo verso la squadra “povera ma bella”. In ogni caso, l'eccezione che conferma la regola: una storia bella da raccontare per poi metterla da parte, con il carrozzone del calcio “che conta” che regala un sorriso a questa storia da romanzo e poi continua ad andare avanti con le solite logiche di sempre.
In realtà, il Lebowski vive per fare esattamente il contrario. I grigioneri, così come gli altri progetti affini in Italia e in Europa, portano avanti una lotta quotidiana per sovvertire i meccanismi del calcio che conosciamo, per costruire attività sportiva e sociale di qualità non solo al di fuori, ma contro le regole capitalistiche, le quali affondano le proprie radici e i propri danni fin nel mondo dei dilettanti. Un lavoro duro, fatto di impegno quotidiano, organizzazione, mille domande a cui dare risposta senza affidarsi a padroni e padrini. Il tutto finalizzato solo ed esclusivamente alla felicità della tifoseria, che altro non è che la proprietaria del tutto. E alla felicità degli atleti e delle atlete, a partire dalle bambine e dai bambini della scuola calcio, che vivono un'esperienza radicalmente diversa da quella delle scuole calcio “professionalizzanti”, dove il gioco troppo spesso si trasforma in incubo. Questa organizzazione e questa mentalità hanno catturato l'attenzione e la voglia di collaborare di Borja e della moglie Rocío. Non una vaga e consolatoria idea “romantica”.
Se si vuole “salvare” il gioco che amiamo, o meglio farlo ripartire da basi nuove che mettano al centro la passione delle tifoserie e il senso di appartenenza, non servono “favole” una tantum, ma modelli vincenti e convincenti. Modelli che sappiano proporre un progetto chiaro a chi vuole aderire, diventare socio, offrire la propria militanza, ma che sappiano anche attrarre “i migliori”. Anzi, l'adesione di Borja può proprio essere interpretata in questo senso: come una straordinaria riprova che la strada presa è quella giusta. Che non è solo moralmente apprezzabile, cosa di cui tutto sommato ce ne facciamo poco, ma che funziona e convince.
E se l'establishment del calcio vorrebbe salutare questa vicenda con una pacca sulla spalla, come una simpatica parentesi o una nota di colore, non dobbiamo essere noi a commettere l'errore di assecondare questa lettura. Molti commentatori del web, in buona fede, ne hanno parlato come di una di quelle cose che “salvano il calcio”. Ma la direzione è esattamente quella opposta: nel calcio di vertice, nelle sue logiche finanziarie e in tutte le dinamiche che si portano dietro, non c'è niente da salvare, ci sono solo picconate da dare per fare in modo che il sistema crolli prima possibile, e che prima possibile rinasca dalle sue ceneri un calcio a misura delle comunità di tifosi sparse ovunque. In questo modo dovrebbe essere interpretata la vicenda di Borja Valero al Lebowski, rispetto al sistema-calcio. Come un colpo assestato alle logiche di mercato, e come un grande punto segnato da chi vuole opporvisi.
Per quanto riguarda invece i compagni di strada, ovvero chi in lungo e in largo prova a dar vita a progetti popolari e autodeterminati, il messaggio è chiaro: si può fare. Il destino riservato a chi prova a fare da sé e sfidare i giganti non è per forza quello di essere minoritario, ghettizzato, messo all'angolo. Certo, non deve nemmeno passare il messaggio per cui semplicemente “è possibile sognare”, o per cui una “favola” può capitarti tra le mani così, solo perché appartieni a una parte che si reputa quella “dei giusti”. C'è una enorme quantità di fatica, di giornate di lavoro volontario che prese una alla volta sembrano fatiche inutili, ma poi vanno a formare settimane, mesi e anni in cui piano piano si fiorisce. Di riunioni fino a notte fonda in gelide sere invernali, di giorni di ferie presi per star dietro alle varie questioni. C'è un continuo mettersi in discussione, perché siamo su una strada tutto sommato vergine, in cui il modello da seguire in realtà va inventato giorno per giorno, in cui è necessario rinunciare ai dogmi ideologici, o almeno metterli a verifica della realtà dei fatti, e uscire dalle comfort zone per andare a scoprire senza pregiudizi che gente c'è in questo enorme e sfaccettato mondo del calcio. Si troveranno inaspettati e spettacolari compagni di viaggio, così come si incontreranno tante teste di cazzo, tanti avversari da sconfiggere. Ma la curiosità di scoprirli, e la fame di conquistare nuovi territori, sono aspetti fondamentali. Altrimenti si resta la squadretta di amici, o al massimo la squadretta di amici che lancia messaggi politici, cosa sempre legittima ci mancherebbe, ma non si porta una sfida di sistema.
Ogni anno che passa, l'idea di costruire un'alternativa seria al calcio dei procuratori onnipotenti, degli sceicchi, delle Superleghe, degli stadi svuotati di linfa vitale sembra diventare sempre più realistica. Soprattutto per colpa del calcio mainstream, che non perde occasione per deludere gli innamorati. Ma anche perché ci sono comunità che accumulano entusiasmo, consapevolezza e organizzazione. E perché ci sono grandi sportivi che di tutto questo si innamorano, e vogliono iniziare a dare una mano. Che Borja possa essere il primo di una lunga serie, e non al Lebowski, ma dappertutto.
Matthias Moretti