Nel vasto reticolo urbano della città di Roma, tra le vie strette e quelle di ampio respiro, tra l’arco di Costantino e il Circo Massimo, si inserisce via di San Gregorio. Proprio qui, lungo il muro che costeggia la strada, è affissa una targa celebrativa le cui parole impresse sfuggono all’attenzione dei passanti:
Ad Abebe Bikila,
Maratoneta d’Etiopia
Vincitore della Maratona della XVII Olimpiade
Sulle strade olimpiche di Roma
Raccontò al mondo il cuore e l’orgoglio della sua terra.
Chi è Abebe Bikila? Ma soprattutto cosa ha compiuto di tanto importante per guadagnarsi eterna memoria con queste frasi incise nel marmo? È utile volgere lo sguardo indietro di sessantuno anni per avere delle risposte, o quanto meno risvegliare la memoria su ciò che accadde.
Il 10 settembre 1960 è sabato. La giornata è mite e il sole rilascia quel tepore degli ultimi scampoli d’estate. I Giochi olimpici che si celebrano nella capitale d’Italia si concludono con la consueta maratona, con i monumenti della città a fare da cornice all’evento. Tra gli atleti disposti sulla linea di partenza si fa notare un giovane con una canotta verde e la pettorina numero 11. Più che per il colore della sua pelle - che ancora crea stupore nell’Italia del boom economico - l’atleta attira l’attenzione su di sé perché non indossa le scarpe.
Abebe Bikila ha 28 anni ed è un portentoso maratoneta etiope anche se il mondo intero se ne accorge soltanto in quell’occasione. Gareggia scalzo perché le scarpe che l’Adidas ha fornito agli atleti gli risultano scomode, ma questo non lo inibisce dal proseguire la gara senza fatica. Non è la prima volta che Abebe calpesta il suolo a piedi nudi e infatti appare tutt’altro che in difficoltà: galoppa sui sampietrini fino all’ultimo centimetro del tracciato di gara mettendo addirittura alle spalle corridori più accreditati come Sergej Popov e Rhadi Abdesselam.
Abebe Bikila è un uomo nato per correre. Inizia tra le strade sterrate di Jato, un villaggio etiope, quando è ancora molto piccolo: macina chilometri in strade polverose. Il destino sportivo di Bikila si intreccia inesorabilmente con le pagine di storia dell’Italia: quelle stracciate e impregnate di sangue. Ha solo quattro anni quando le truppe italiane invadono l’Etiopia per perseguire le manie imperialiste di Mussolini. È ancora troppo piccolo, ma rimangono scalfiti interiormente i segni indelebili dei massacri della sua gente. Barbarie perpetrate verso la popolazione la cui unica colpa è avere la pelle scura e opporre resistenza ai colonizzatori.
Le stesse violenze che nel 1936 l’imperatore Hailè Selassiè mette in luce alla Società delle Nazioni, denunciando l’uso improprio delle armi chimiche da parte degli italiani in un discorso inequivocabile che lascia poco spazio alle interpretazioni:
[…] È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l'Etiopia. Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle.
La vittoria di Bikila a Roma, ottenuta in 2 ore 15 minuti e 16 secondi, è la riaffermazione della dignità umana ancora prima che quella sportiva. Una corsa che consegna per la prima volta al suo paese una medaglia olimpica e spezza le catene con la tradizione coloniale.
Il 1960, infatti, è un anno di svolte epocali che hanno mutato gli equilibri del continente africano. Si dà il via al processo di decolonizzazione di ben 17 paesi che si dichiarano indipendenti da Regno Unito, Francia e Belgio. La Repubblica Democratica del Congo, uno Stato il cui territorio è storicamente preda dei colonizzatori, dai tempi di Leopoldo II, cede il passo al movimento nazionale congolese di Patrice Lumumba, figura carismatica e primo leader eletto democraticamente eletto nel paese.
Il trionfo di Roma ha il sapore forte della rivalsa: la rivincita dei sudditi, contro l’uomo bianco “civilizzatore”. Ma la storia di Bikila non è purtroppo di quelle a lieto fine. Morirà nel 1972, dopo aver trascorso gli ultimi anni della sua vita sulla sedia a rotelle a causa di un incidente stradale che, nel 1969, gli aveva portato via l’uso delle gambe: l’unico mezzo di riscatto che la vita gli aveva concesso. Come avvenne in quella notte di fine estate del 1960, quando dei piedi nudi dimostrarono al mondo intero come fosse possibile restituire dignità ai popoli oppressi.
Pierluigi Biondo