(tutte le informazioni, i racconti, le suggestioni di questo articolo mi sono state date dagli entusiasti, affettuosi e simpatici tifosi Eisern Union che mi hanno adottato nella Curva Waldseite e a cui va la mia gratitudine)
Quella dell’Union Berlin, la piccola squadra di Köpenick, quartiere operaio di Berlino Est, non è solo una favola sportiva, è qualcosa di più. È un’esperienza che interseca il calcio, e in particolare una precisa idea di calcio, con il riscatto di una comunità nei confronti della Storia - quella che si studia sui libri. Profondamente intrecciata con gli avvenimenti che lungo il ’900 hanno travolto la città di Berlino, la vicenda calcistica dell’Union inizia oltre un secolo fa, nel 1906, anche se all’epoca si chiamava Fußballclub Olympia Schöneweide. Da allora, passando per gli anni bui del nazismo, dalla rifondazione post bellica alla DDR, il club ha vissuto ogni tipo di crisi e difficoltà, rialzandosi dalle cadute sempre e contro ogni aspettativa, proprio come la città e i suoi abitanti. “Rinati dalle rovine”, come recitava l’inno della Repubblica Democratica Tedesca.
Alla fine della seconda guerra mondiale, la capitale era infatti un enorme cumulo di macerie fisiche, sociali e politiche. In quella distruzione, di lì a poco, il Novecento avrebbe fatto correre del filo spinato prima, un muro poi, dividendo l’Est dall’Ovest. E decenni dopo con la folla che festeggiava la Germania Ovest campione del mondo a Italia ’90, sotto le macerie di quello stesso muro, sarebbero finiti sepolti il socialismo reale, la DDR ed i cittadini dell’Est, figli di una Storia minore e sconfitta. Eppure il Muro era caduto grazie a loro. Furono proprio loro, dai quartieri di Pankow, di Treptow, di Marzahn ad abbatterlo fisicamente, poco prima di essere traditi dalle promesse della Repubblica Federale. Si trovarono di colpo impoveriti, spesso disoccupati, senza che alle loro vite fosse concessa nemmeno la dignità di un posticino nella nuova capitale europea della Germania riunita. E di nuovo, persino in mezzo alla disperata distruzione della “fine della storia”, con i loro scarsi mezzi, gli Ost Berliner iniziarono a ricostruire. Testardi e ribelli.
Sul filo di questi avvenimenti, l’Union Berlin ha cambiato nome più volte, è stata fusa ad altre società, è passata da tutte le leghe calcistiche, locali e nazionali, ed è stata ciclicamente sul punto di sparire. Eppure, come la città con i suoi cittadini, la rappresentativa calcistica orientale ha sempre potuto contare sull’organizzazione, l’inventiva e la generosa ostinazione dei propri tifosi. Gli episodi da raccontare sarebbero innumerevoli, ma basti qui ricordare quando, nel 2005, i supporters dell’Union donarono letteralmente il sangue (in Germania la donazione di sangue viene ricompensata) versando il ricavato nelle casse in rosso del club, salvandolo da un sicuro fallimento. O quando, nel 2009, rimisero a norma uno stadio ormai fatiscente per conquistare l’ammissione in 2. Liga. Lo fecero in duemila, con 140 mila ore di lavoro volontario. Uno sforzo di autorganizzazione senza precedenti che pose le basi per l’acquisto dell’impianto nel 2013 frutto di un azionariato popolare dal rigido principio “una testa un voto” (il voto del presidente conta quanto quello di ciascun tifoso). Fu così che la piccola Union divenne inaspettatamente la prima squadra tedesca ad azionariato popolare a essere proprietaria del proprio stadio. L’azionariato iniziò subito sulle ali dell’entusiasmo con 4141 quote e oltre due milioni e mezzo di euro. Oggi, dopo otto anni, i tifosi azionisti sono diventati ben 32.500 (malgrado lo stadio ne possa contenere 22.000). E le casse del club, a ogni fine stagione, riescono ad avere importanti utili pur mantenendo il prezzo del biglietto “popolare” a 12 euro, senza eccezione tra le amichevoli e le Coppe Europee.
Lo stadio “An der Alten Försterei” (letteralmente “Al vecchio rifugio del Guardaboschi”) sorge al centro di una foresta secolare e ha due caratteristiche uniche. Innanzitutto, come accennato, è interamente amministrato e gestito dai tifosi e, quindi, è stato messo al servizio della collettività in più occasioni. Come quando, durante i Mondiali del 2014, sul manto erboso furono portati 2000 divani per seguire la nazionale dai maxischermi, riproducendo un gigantesco soggiorno domestico. E del resto è proprio lo stadio, non la chiesa né uno dei mega centri commerciali spuntati come funghi negli ultimi 20 anni, l’unico luogo in cui un quartiere periferico con migliaia di abitanti può ritrovarsi la domenica, trascorrendo le ore che precedono il fischio di inizio tra i tavoli e i gazebo che vendono birra e panini. E infatti allo stadio ogni anno la comunità si incontra per scambiarsi auguri e regali durante le feste natalizie (raggiungendo il record di 28.000 persone nel Natale 2019).
Un’altra peculiarità dell’impianto è che non ha sedili ma solo gradinate di cemento; di conseguenza le partite vengono seguite per lo più in piedi come di norma accade nelle serie minori. Questo dettaglio rende l’Alte Försterei una bolgia con un tifo ugualmente entusiasta nelle curve come nelle tribune che è il dodicesimo giocatore in campo dell’Union.
Il Senato berlinese ha provato a più riprese a spingere verso un ulteriore ammodernamento della struttura per aumentarne la capienza, prospettando l’abbattimento parziale della foresta. Ma i tifosi, per adesso, forti della propria posizione di proprietari dello stadio e del club, sono riusciti a bloccare ogni progetto invasivo di gentrificazione e distruzione ambientale. Un’ulteriore riprova non solo dello spirito ostinato, autonomo ed estraneo alle dinamiche del calcio contemporaneo dell’Union, ma anche del “legame di ferro” che salda i tifosi al quartiere e alla squadra come pure all’amministrazione del territorio (peraltro uno dei pochissimi ancora governati dalla Linke, la sinistra radicale erede dell’epoca socialista).
Non è un caso, dunque, che si facciano chiamare da sempre “Eisern Union”, una sigla “antica”, che letteralmente sta per “Unione di Ferro” o “Unione del Ferro”. Il nome da un lato rimarcava l’appartenenza a una comunità e alla sua storia, dall’altro aveva una precisa connotazione di classe. Sin dalla fondazione, infatti, sia i calciatori che i tifosi provenivano dalle catene di montaggio delle fabbriche, in particolare dalle fila del sindacato degli operai metalmeccanici. Quando, decenni dopo, alla rifondazione del 1966, l’1.Fussballclub Union Berlin si ritrovò in Oberliga (il corrispettivo orientale della Bundesliga) contro la ricca e privilegiata Dynamo Berlin, finanziata e supportata dalla StaSi, malgrado la squadra non primeggiasse in campo, i ranghi dell’Eisern Union si allargarono di anno in anno. Tifare Union nella Berlino socialista degli anni ’70 e ’80 divenne il modo per protestare contro le autorità più repressive della DDR. All’epoca si diceva di loro “non tutti i tifosi dell’Union sono nemici dello Stato, ma tutti i nemici dello Stato tifano Union” cui gli Eisern Union rispondevano, senza troppi giri di parole: “Meglio essere dei perdenti che dei maiali della Stasi”. Il club, di fatto, era lo strumento con cui moltissimi lavoratori prendevano liberamente parola nella capitale della Germania socialista per puntare il dito sugli aspetti più critici della società. E gli stessi tifosi lasciavano aperti i cancelli dello stadio ai punk, agli anticonformisti e agli studenti, rendendo le gradinate dell’Alte Försterei spazi sicuri di comunanza e solidarietà. E, malgrado siano passati cinquant’anni e la DDR sia solo un ricordo, ancora oggi sopravvive l’aspra rivalità con la Dynamo Berlin. Rivalità che più spesso si trasforma in aperta e viva ostilità (sebbene la DFC gareggi in serie minori). Un odio che se ieri era rivolto agli agenti della Stasi oggi prende di mira i tifosi della Dynamo, notoriamente tra le più violente curve di calcio in Germania, nelle cui fila si trovano, unico caso in città, pericolosissimi gruppi neonazisti.
La verve punk e antiautoritaria dell’Eisern Union è, insomma, il genius loci dell’Alte Försterei. E non è un caso che i match si aprano con l’inno ufficiale, scritto nel 2006 da una supporter “locale” d’eccezione: la “punk queen” Nina Hagen. L’inno, che si intitola, manco a dirlo, Eisern Union, risale al 2006 ed è un preciso biglietto da visita sull’anima della squadra. Recita: “Noi dell’Est siamo sempre andati oltre, spalla a spalla per l’Unione di ferro. Il tempo è duro e la squadra anche. Ecco perché vinciamo grazie alla nostra Unione di ferro”. Forse fu proprio il nuovo inno a portare fortuna visto che inaugurò un nuovo straordinario ciclo sportivo. Da allora, domenica dopo domenica la squadra ha inanellato successi e record. E con lei anche l’intero quartiere e la tifoseria hanno goduto di un’inedita considerazione. Grazie ai sorprendenti risultati degli ultimi anni, infatti, persino la nozione di “Ossi”, berlinese dell’Est, è passata dall’essere una sorta di stigma sociale a un’identità a suo modo “cool” e da rivendicare con orgoglio.
Arrivando ai nostri giorni, la straordinaria rincorsa pluridecennale dell’Union è culminata, nel 2019, con la storica promozione in Bundesliga, l’élite del calcio tedesco, fino a quel momento riservata solo agli storici, ricchi e blasonati club della Germania Ovest. E attraverso quella promozione si è giunti, finalmente, alla dodicesima giornata di Bundesliga della stagione 2021-22 e al suo match clou: il derby di Berlino tra Est e Ovest nella cornice dell’Alte Försterei. I padroni di casa dell’Union sono scesi in campo contro l’Hertha Berlin, squadra ben più nota e gettonata con il cuore pulsante a Charlottenburg. Ma il match non è stato solo una gara tra due squadre quanto tra due storie sportive profondamente diverse, a loro volta radicate in due Berlino molto differenti. Persino le opposte impostazioni di gioco presentate in campo rimarcavano queste diversità. L’Union, solidissima, ha valorizzato il gioco di squadra, il collettivo più che i singoli. Ha sfruttato il contropiede o gli insidiosissimi schemi sui calci piazzati. L’Hertha, al contrario, è scesa in campo forte di una più prestigiosa rosa di talentuose individualità (una fra tutte Kevin Prince Boateng, nato a Berlino Ovest, cresciuto insieme ai due fratelli tirando calci a un pallone sull’asfalto del poverissimo quartiere di Wedding). Il match alla fine se l’è aggiudicato meritatamente l’Union con un secco 2 a 0. La squadra di casa ha preso alla lettera le parole di Nina Hagen e ha giocato per tutti e 90 i minuti come un collettivo duro, perfetto nei fondamentali del calcio, quelli che insegnano a scuola calcio: stop, passaggio corto, passaggio filtrante, inserimento, copertura e calcio d’angolo. Per buona parte della gara l’Union ha in questo modo gestito gli avversari senza un gran dispendio di energie fisiche e mentali. Questa tattica è stata premiata già all’ottavo minuto grazie a un rapido inserimento tra le linee difensive dell’Hertha del ventitreenne Taiwo Awoniyi, appena rientrato da un infortunio. Alla mezz’ora è poi arrivato il raddoppio, sugli sviluppi di un calcio d’angolo con il capitano, il nazionale austriaco Trimmel. Alla ripresa dall’intervallo, l’undici di casa non si è arroccato in difesa nel rintuzzare la prevedibile reazione degli ospiti. Addirittura, col passare dei minuti, i biancorossi hanno spostato sempre più in avanti il baricentro del gioco sospinti dal tifo elettrizzante dagli spalti e da alcuni cambi freschi. L’Hertha non è riuscita mai a impensierire seriamente i padroni di casa e nessuno ha potuto recriminare nulla sul risultato finale. Dopo il triplice fischio, in un tripudio di birre e applausi, la comunità dell’Eisern Union si è lasciata andare ai festeggiamenti non solo per il successo sui ben più titolati “cugini” occidentali ma anche per l’ottima prestazione della squadra e il bel calcio mostrato.
Chiunque si aspettasse tensioni o addirittura tafferugli tra le tifoserie è rimasto deluso. Il clima nel pre e post partita è stato quello di una “festa di paese” nonostante l’aria elettrica ed il pubblico numeroso delle grandi occasioni. Malgrado l’arrivo della quarta ondata di Covid 19, i tifosi dell’Union hanno fatto di tutto per riempire le gradinate come mai dall’inizio della pandemia (i precedenti derby, nella scorsa stagione, si erano infatti giocati a porte chiuse). E questo è stato forse l’unico aspetto che ha generato le poche note stonate della serata, per i controlli inutilmente rigidi e qualche nervosismo comprensibile, vista la decisione delle tifoserie e della società di permettere l’accesso allo stadio esclusivamente a vaccinati e guariti che avessero presentato, in aggiunta, la certificazione di un tampone negativo.
A partita conclusa, il ritorno alla Club House, attraverso gli altrimenti solitamente silenziosi sentieri nella foresta, è stato accompagnato da cori, canti e slogan all’insegna di una sportività quasi rugbistica verso gli avversari, cui si riconosceva l’onore delle armi, nonché l’essere “parte di un’unica città” (che, ripensando all’emarginazione patita per anni dai cittadini dell’Est suonava a metà tra il riconoscimento reciproco e la rivalsa). Un “diritto di cittadinanza” sportiva comunque inesorabilmente negato agli odiati tifosi della Dynamo Berlin verso cui, di tanto in tanto, partivano cori di insulti e scherno.
E così, in una fredda serata novembrina, dall’alto del quinto posto in Bundesliga e guardando un po’ alticce al futuro, l’1.FC Union e la sua unica comunità umana hanno gioiosamente e rumorosamente potuto dire alla città e al resto del mondo di essere di nuovo riuscite a “rinascere dalle rovine” contro ogni pronostico e ogni cinico luogo comune.
Nicola Carella