Il titolo potrebbe sembrare una barzelletta, un gioco di parole, e invece no, non lo è: è una rivisitazione del nome di un film francese del 2013, Molière in bicicletta. Dalla cinematografia ci arriva un assist pennellato che ci permette di spaziare in altre direzioni; Ihattaren, il calcio e quello che si porta dietro, e il monopattino, con tutto ciò che significa di questi tempi nel nostro paese. Ma un passo alla volta. Per comprendere a fondo il parallelismo è doveroso spendere qualche parola sull'opera citata in apertura. Nel film si intrecciano le vicende di due attori: uno, Gauthier Valence, ricco e famoso, e l'altro, Serge Tanneur, stanco e demoralizzato. Il primo decide di mettere in scena un grande classico della cultura teatrale francese, e non solo: Il misantropo. E guarda un po', per realizzare la sua idea ha bisogno del suo amico Tanneur, ormai stanco, disincantato e misantropo a tal punto da vivere isolato da tutto e da tutti; al sicuro nella sua tana e con solo una bicicletta. Qui blocchiamo la vicenda, la storia prosegue ma prende altre strade che a noi ora non interessano. Ci basti immaginarli lì, l'attore di successo e quello misantropo, in una stanzetta alle prese con il testo di Molière.
E cosa c'entra, quindi, Ihattaren con tutto questo? Con Molière, con la bicicletta, con il misantropo? Un passo alla volta, si diceva, una pedalata alla volta.
Il nome di Mohamed Ihattaren, calciatore olandese classe 2002, è salito alle luci della ribalta nell'estate appena passata. Il giovanissimo atleta era stato acquistato dalla Juventus per poi, il giorno stesso, venire ceduto in prestito alla Sampdoria. Nella realtà dei fatti, però, non è mai sceso in campo con nessuna delle due squadre. Di lui, ora, non si sa molto. Per vederlo in campo bisogna riavvolgere il filo della narrazione e tornare al 24 aprile del 2021, giorno a cui risale la sua ultima partita disputata: PSV Eindhoven, sua squadra di allora, contro Groningen. Da lì in poi il caos. Qualche mese dopo, come si diceva, è arrivato in Italia, ma in poche settimane ha rifatto le valige e se ne è tornato a casa. O meglio, questo è quello che viene raccontato, ma di certo nella vicenda c'è ben poco. Un paio di dati sicuri però ci sono, e ci permettono di mettere insieme i tasselli del puzzle. È assodato che nell'ottobre del 2019 il padre di Ihattaren, figura a cui il calciatore era molto legato, è morto a causa di un tumore. Questo avvenimento, ed è quasi patetico sottolinearlo, ha annichilito il centrocampista – all'epoca solo diciassettenne – lasciando, evidentemente, degli strascichi tanto profondi quanto invisibili. Con il tempo queste ferite lo hanno lavorato da dentro, gli si sono piantate sottopelle e sono cresciute insieme a lui. Hanno scavato, si sono calcificate e si sono affiancate a tutte le incomprensibili tormente che la vita, ogni tanto, presenta: da Eindhoven a Genova, passando da Torino. È difficile comprendere cosa passi nella testa degli esseri umani, cosa gorgogli nei più profondi meandri dell'animo: lo sappiamo bene, e lo sa bene la scienza, il meccanismo causa-effetto ha poco a che fare con le nostre vette e le nostre miserie, attiene piuttosto ad altri ambiti di ricerca. Ma non a noi, noi siamo pieni di bufere di difficile lettura, di difficile genesi. E nessuno ne è esente davvero: non c'è reddito che salvi, non c'è geografia che metta al riparo, non c'è condizione sociale che esoneri. Ed è così, senza un'origine ben tratteggiata, che anche Mohamed Ihattaren è finito nel gorgo della depressione, della fatica, della voglia di sottrarsi dagli occhi del mondo. Un po' come Alceste, il misantropo dell'opera teatrale, e Tanneur, il misantropo del film. Un vortice buio, un labirinto impossibile da codificare. Per Dante era una selva oscura, per Montale era il male di vivere, per Sartre era la nausea. Per Ihattaren è ancora qualcosa di diverso: di sacro e insindacabile. Eppure, eppure, qualcuno ha provato a metterci il becco con invadenza, a improvvisare diagnosi insulse. I media e gli avventori del web, infatti, hanno iniziato ad avanzare tesi, una dopo l'altra: è depresso, ma con tutti i soldi che guadagna come è possibile? Diceva qualcuno. Non è pronto, è solo un ragazzetto viziato! Strillava qualcun altro. E via, avanti così. Oppure, e per rendere onore al vero va detto, c'è chi non si è riempito la bocca con queste cattiverie. Qualcuno, però, ha trattato Ihattaren e il suo caso – e solo ripetere questa espressione mette i brividi – come una faccenda meramente commerciale, economica. I giornali parlano di questa storia come di un enorme rammarico, di una grandissima occasione sprecata, di un potenziale che poteva essere ma non è stato. Nulla di anomalo, in effetti. Ma se si aguzza bene la vista e si legge tra le maglie di certi articoli si intravede l'infimo meccanismo che sta alla base di questo rimpianto: il profitto mancato. Ihattaren è trattato, né più né meno, come merce di scambio. Una pedina, una fiche al casinò. E anche se siamo abituati, e ormai l'abbiamo capito che le cose funzionano così, non riusciamo a farcene una ragione. Di umano c'è poco, molto poco, e la sensazione che siamo qui per produrre, consumare e crepare si solidifica sempre di più.
Ma il monopattino, allora, cosa c'entra il monopattino? Ecco, ci stiamo arrivando. Scomponendo bene il titolo, allora, intuiamo come Ihattaren si avvicini un po' al personaggio di Molière e del film. Un personaggio che – per degli uragani sotterranei e, ripetiamolo fino allo sfinimento, insindacabili, qualsiasi sia la loro natura – ha scelto di nascondersi, di scomparire per un po' dal mondo, di stare arroccato sul suo ramo e guardare le cose da lì. Il monopattino invece è l'emblema dello squallore, un ennesimo assist, che ci permette di guardare la vicenda da un altro punto di vista: quello sociale e umano che ci circonda.
È notizia di pochi giorni fa, infatti, che il Governo ha scelto di dirottare un gruzzolo importante di soldi, invece che al famigerato bonus psicologo, ad altri tipi di sostegno. C'è di tutto, nei sussidi previsti dallo Stato: bonus zanzariere, rubinetti, tablet, terme, mobili, smartphone, e finalmente il monopattino. Siamo tutti d'accordo dell'importanza del pane, della sostanza, e siamo altrettanto d'accordo che se fossero stati stanziati dei bonus a favore del sostegno psicologico saremmo qui ora a parlare di altri diritti mancati: quello all'informazione, alla comunicazione, e via dicendo. Però, la situazione del giovane calciatore olandese ci martella sulla tempia e ci fa dire che sì, la salute mentale è, o dovrebbe essere, una priorità imprescindibile. Ihattaren è lì, sbattuto in prima pagina, ma in Italia esiste un sommerso invisibile di disagio e di sofferenza. Sono notizie all'ordine del giorno quelle che parlano di suicidi, o tentati suicidi, da parte di chiunque: madri, padri, ragazzi, ragazze, bambini, bambine. C'è un'emergenza sociale, ed è ora di prenderne atto. E non è una faccenda privata, un capriccio del singolo, una bizza di un giovane calciatore viziato o di una ragazzina annoiata, no: è un'urgenza collettiva. Siamo dentro una società che ammala, che lastrica la strada di pietruzze, ti leva le scarpe e poi ti dice di correre. Ché altrimenti rimani indietro: come un perdente, come uno che non ce la fa a stare al passo degli altri. La sofferenza mentale, si diceva poco sopra, è un affare di tutti, e la salute e la cura della stessa, di conseguenza, devono essere un diritto di chiunque: a prescindere dal reddito, dalla geografia, dalla professione. Serve informazione, accessibilità, capillarità dei servizi. Serve normalizzare: normalizzare l'anomalia, la sofferenza, il dolore. In modo tale che non ci sia terreno fertile per gli sciacalli che si divertono a predare e saccheggiare i nostri grovigli interiori. Parlare e ribadire il diritto alla fatica è uno dei pochi antidoti che abbiamo. E serve anche, infine, proporre umanità: nelle maglie serratissime di questo mondo servono spiragli di umanità, appunto, che la guardino, la curino, la preservino. E la vicenda di Ihattaren serve proprio a questo, a educarci a guardare alla persona in maniera diversa; oltre il valore, la prestazione, il commercio, l'economia. Serve a guardare la carne viva e a rimettere in ordine le priorità: qualcosa che sposti la discussione sulla nostra materia; a volte fiume impetuoso e altre volte pozza stagnante. Perché altrimenti il rischio è uno. Quando gli strilleremo in faccia che abbiamo bisogno di aiuto, e di soldi per curarci, ci risponderanno – con il loro volto gelido e austero – di non temere, di non avere paura; abbiamo il monopattino.
Non sappiamo cosa sarà di Mohamed Ihattaren, se sceglierà di tornare a prendere a calci un pallone o meno, sappiamo solo che benediremo ogni uragano e lo tratteremo con il rispetto che si deve alle rivoluzioni della natura, alle celebrazioni del sacro. Quello con la lettera minuscola: quello sporco, ruspante, quello dei campetti. Perché la speranza è che, per Ihattaren come per tutti noi, anche nella fatica possiamo trovare una scintilla di vita. E che, come diceva Camus in chiusura de Il mito di Sisifo: anche la lotta verso la cima basti a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
Francesco Fontana