Da grande appassionato di storia, mi ha sempre sedotto l’idea di poter viaggiare nel tempo. Avere la capacità, attraverso una macchina spazio-temporale, di rivivere epoche remote potendone cambiare, magari, il corso degli eventi. Questa utopica visione è condensata in un passaggio della celebre pellicola americana Ritorno al futuro, dove uno dei protagonisti spiega come esistano dei momenti capaci di invertire il cosiddetto “continuum tempo-spazio”: la linea del tempo che se deviata dal suo corso naturale, modifica la traiettoria delle nostre esistenze.
Seppur questa teoria appartenga al campo della fantascienza cinematografica, è un esempio utile a comprendere come alcuni eventi (seppur impercettibili) possano influire irrimediabilmente sul nostro destino.
Nell’Italia orfana di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’azione di terrorismo fallita da Cosa Nostra allo stadio Olimpico, il 23 gennaio del 1994, fu l’ultimo tassello di un puzzle costruito per mettere definitivamente la Repubblica in ginocchio; ma anche un episodio che ha generato un riverbero irreversibile per le sorti del paese.
Quel giorno, mentre la Roma, che aveva da poco cominciato ad assaporare l’estro e la classe di un giovane di belle speranze di nome Francesco Totti, concedeva l’onore delle armi all’Udinese, sulla collina di Monte Mario due affiliati del mandamento palermitano si preparavano a far esplodere una lancia Thema imbottita di tritolo e di tondini di ferro.
Come il futuro del paese sia terribilmente legato alla bomba inesplosa in viale dei Gladiatori, se ne ha evidenza negli accordi torbidi che hanno favorito l’ascesa di esponenti politici della passata e attuale classe dirigente. Un patto raggiunto con “quello di Canale 5” - come è emerso dalla confessione fatta dal boss Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza - per cessare la violenza sanguinaria in cambio di un allentamento delle maglie sul carcere duro.
Il giorno dell’anniversario del fallito attacco mafioso fornisce l’occasione per riflettere su come, non solo per una casualità, oggi non si commemori una tra le più feroci mattanze di civili dell’epoca moderna, ma anche come le conseguenze politiche derivate da questo episodio abbiano scatenato un effetto domino sfociato (anche) nella deriva del calcio moderno.
È importante porre però una precisazione. C’è un passo nel libro di Luca Pisapia Uccidi Paul Breitner, frammenti di un discorso sul pallone che, in modo quasi sorprendente, mette in luce come, in realtà, il calcio sia nato moderno. Al netto di false credenze, secondo l’autore, non sarebbe mai esistita alcuna età dell’oro, dal momento che in ogni epoca, il potere si è servito dello sport come grimaldello per consolidare il proprio scettro. Nulla da eccepire, sia chiaro.
Ma è pur vero che gli ultimi trent’anni hanno decisamente esacerbato questo assioma, contribuendo a una brusca accelerata nell’abbattimento di quei pochi capisaldi morali ancora rimasti in piedi.
Dunque l’avvento della seconda Repubblica, che vide l’ascesa di Silvio Berlusconi come capo del governo, è comprensibile non solo se si analizzano i fatti sopra espressi, ma se si tiene conto anche di quel processo antropologico che, secondo lo storico Guido Crainz, ha mutato il tessuto sociale della popolazione impedendo che alla crescita della ricchezza monetaria si accompagnasse anche un’evoluzione “etico-civile”.
Del resto, l’introduzione nei primi anni Ottanta della tv commerciale carica di vuoto ideologico, ha reso il terreno fertile per l’esordio della pay-tv che, negli anni, ha modificato il paradigma dello spettatore-tifoso in cliente-consumatore.
Disse una volta Costantino Rozzi: “a lungo andare avremo un campionato europeo con le più grosse società di ciascun paese e parallelamente, un altro campionato a carattere nazionale”.
Quella che sembrava la premonizione di una Superlega ante litteram è stata in realtà la conseguenza naturale di una deriva sociale che ha anteposto il profitto al bene della collettività.
Un’ossessione soprattutto per i grandi club, che hanno fatto loro il principio di un famoso slogan: “vincere è l’unica cosa che conta”. Dal momento che si può sacrificare qualsiasi etica pur di riuscirsi, non è più importante sapere che le proprietà impieghino prestanomi, ricorrano a scatole cinesi per raggirare le normative, o si avvalgano di paracaduti e plusvalenze per ripianare disastri finanziari.
Tutti comportamenti che attecchiscono a un humus che il berlusconismo ha esasperato normalizzando l’illegalità agli occhi dell’opinione pubblica, sdoganando il malaffare e ridicolizzando le battute sessiste.
A tal proposito, viviamo nell’epoca che considera ancora il calcio un gioco “non per femminucce”, e dove queste bizzarre teorie trovano conferme nelle convinzioni dell’ex presidente della federcalcio statunitense Carlos Cordeiro (tra l’altro oggi in gara per una nuova candidatura) che giustificò, attraverso argomentazioni pseudo-scientifiche, il gap salariale delle calciatrici rispetto i colleghi in relazione alla qualità della prestazione per forza e velocità.
Senza volersi spingere solo oltre oceano, queste inclinazioni misogine nel nostro paese trovano conferma nella cosiddetta cultura dello stupro, quella tendenza a minimizzare una molestia, riconducendo la responsabilità dei fatti non a chi la compie bensì a chi la subisce.
L’esempio più fresco è quello di Greta Beccaglia, la giornalista vittima di molestie in diretta televisiva, accusata di esasperare la “goliardata” di un tifoso per anelare visibilità.
È chiaro che la difficoltà a erodere questa mentalità risiede nella tendenza culturale a ridimensionare questi atteggiamenti spesso con una risata o riducendoli a espressioni di cattiva educazione.
È evidente come aver schivato nel ’94 quella potenziale tragedia non abbia risparmiato però la morale dalla società, sbalzata da un’energica onda d’urto verso la costruzione di mondo capace soltanto di gesti simbolici ma silente e complice di queste derive.
Pierluigi Biondo