Le strade di Dakar sono ancora in ostaggio dei festeggiamenti, grazie all’impresa dei “Leoni del Teranga”, capaci di alzare al cielo per la prima volta la Coppa d’Africa dopo una partita tiratissima, risolta solo alla roulette dei calci di rigore contro l’Egitto, certificando a tutti gli effetti anche il ritorno dei Faraoni tra le grandi del continente.
Merito di una grande squadra e del suo condottiero, Aliou Cissè, battistrada di una pattuglia di ben 18 tecnici africani su 25 (il Malawi si è presentato con una coppia in panchina) che se da un lato è indicativo dei progressi fatti dagli allenatori africani nel corso degli ultimi decenni; dall’altro è un parziale contraltare della diaspora calcistica (fiera riproduzione delle logiche neocolonialistiche) che depaupera il Continente nero di gran parte dei suoi talenti restituendogli - con qualche validissima eccezione - calciatori di seconda o terza fascia.
Tuttavia abbiamo avuto l’opportunità di osservare interessanti prospetti per il futuro e di seguire con passione alcune storie che per un attimo ci hanno ricongiunto con lo spirito del calcio, come quella del Gambia, giunto inaspettatamente fino si quarti di finale, delle Isole Comore – più forti del Covid e dei regolamenti – che alla loro prima apparizione sono arrivate agli ottavi, ma anche della rinascita della Sierra Leone, uscita sfortunatamente ai gironi, sprecando il rigore qualificazione a 5 minuti dalla fine.
Una menzione a parte la merita Salima Mukasanga, trentatreenne ruandese e prima donna ad arbitrare una partita del torneo, Zimbawe-Guinea
Quindi, tutto ok? Non esattamente.
Di solito per iniziare una requisitoria, si parte dalla formula “al di là delle dichiarazioni di rito”.
Ecco, forse il principale merito, non tanto della competizione in sé, ma della narrazione intorno alla stessa, è stato la mancanza di quelle stesse dichiarazioni di facciata, perché sin dall’inizio in buona parte dell’universo calcistico europeo non si è fatto nulla per nascondere il proprio fastidio e la propria avversità a questo trofeo. Infatti, da Napoli a Watford passando per Amsterdam gli attacchi diretti e indiretti nei confronti della competizione sono stati molteplici e neanche tanto velati, a tal punto da far dichiarare all’ex asso dell’Arsenal, Ian Wright, quanto la narrazione europea sulla Coppa d’Africa fosse tremendamente intrisa di colonialismo, come gli ha fatto eco – tra gli altri – l’ivoriano dell’Ajax Heller, a dir poco infastidito dopo l’ennesima domanda sulla risposta alla convocazione della nazionale. D’altronde, noi abbiamo appena vissuto una sosta dei principali campionati ufficialmente per uno stage della nazionale, ma ufficiosamente per “non disturbare l’ultima settimana della sessione di mercato” a dimostrazione di come si tratti di due mondi quasi incomunicabili tra loro, con la sostanziale differenza che dalla nostra sponda del Mediterraneo si ha la pretesa di decidere cosa sia giusto e cosa no.
Sicuramente anche il comportamento del governo del calcio mondiale, nella persona di Infantino, non aiuta affatto nel processo di acquisizione di credibilità da parte del movimento calcistico africano, dato che – stando alle parole dell’ex allenatore del Togo Le Roy – ha fatto di tutto per portare la competizione fuori dal continente (avrebbe voluta farla disputare in Qatar) e appena sbarcato non ha fatto altro che parlare di soldi; nulla di nuovo insomma, così come quella smielata retorica paternalista della riduzione dei morti in mare, per perorare la causa (e gli eventuali profitti) del Mondiale ogni due anni; dichiarazioni di cattivo gusto, fatte apposta per acuire quel senso di “fardello dell’uomo bianco” in tutti quegli addetti ai lavori che non vedevano l’ora di specchiarsi nella bellezza del loro calcio finanziario di fronte alla proverbiale disorganizzazione africana. Ulteriore dimostrazione del reale interesse di Infantino & co. il fatto che in contemporanea alla Coppa d’Africa si disputi il Mondiale per Club, privando di fatto i campioni d’Africa, gli egiziani dell’Al Ahly, di parecchi titolari.
Tuttavia, bisogna pur riconoscere che la CAF (la Confederazione calcistica africana) puntualmente ci mette del suo per farsi irridere: tralasciando volutamente la tragedia dello stadio Olembe che merita solo silenzio e rispetto, il campionario va dalla mancata esecuzione dell’inno mauritano nella prima partita contro il Gambia, al Sudan che disputa il match con la Guinea Bissau utilizzando due divise differenti, passando per l’inconveniente folcloristico dei microfoni “ripresi” dal legittimo proprietario durante una conferenza stampa del ct tunisino, fino all’ormai celebre arbitro che ha fischiato anzitempo la fine della partita (sul quale in tanti commentatori hanno dato il peggio di sé), gli “inconvenienti” ci sono stati, anche abbastanza vistosi per non passare dalla lente d’ingrandimento di tutta quella pletora di persone che attendeva il minimo errore per puntare il dito e riprendere con la “tiritera del buon selvaggio”. Certo, sarebbe da sapere cosa abbiano detto nel frattempo questi novelli Rousseau mentre Milan-Juve si disputava su un campo di patate, del fatto che un arbitro di Serie A – Serra – è ancora sotto shock per il rischio di avere influito in maniera decisiva sulla corsa scudetto, oppure di fronte ai giubbotti catarifrangenti utilizzati durante Cile-Argentina – valida per le qualificazioni mondiali – perché i guardalinee avevano dimenticato le loro bandierine, ma anche di fronte alla scelta degli USA di disputare la gara con l’Honduras a Minnesota a una temperatura percepita di -25 gradi provocando principi di ipotermia in diversi calciatori della squadra ospite, abituati a vivere a temperature superiori di almeno una quarantina di gradi rispetto a quella del match.
Ma le falle più grandi dell’organizzazione, probabilmente sono state nei suoi aspetti più ”europei”. Non ci riferiamo a quella sfilza di noiosi zero a zero soprattutto nelle prime partite che comunque potrebbero avere il merito di distruggere definitivamente – qualora ce ne fosse bisogno – il cliché di un calcio tutto fisico e tatticamente nullo che poteva essere valido venticinque anni fa, bensì alla gestione della pandemia: principalmente per un cambio di normativa sulle quarantene a metà del primo turno a eliminazione diretta, dopo che si erano già verificate le prime “incongruenze” (come nel caso delle Isole Comore che hanno affrontato il Camerun decimate dal Covid e hanno schierato un calciatore di movimento in porta), ma anche sull’accesso agli spalti possibile solo ai vaccinati: in linea teorica una scelta giusta e plausibile, ma che di fatto ha escluso la stragrande maggioranza della popolazione dall’evento, in quanto solo l’8% dell’intera popolazione africana è vaccinata e in gran parte degli Stati si è verificato un processo di immunizzazione di gregge senza passare per i vaccini.
Sarebbe potuta essere l’occasione per provare a interrogarsi sul perché arrivino così pochi vaccini nell’intero continente e su come si intende debellare il Covid se le vaccinazioni tralasciano volutamente la parte più povera del mondo, ma se certi temi non sono affrontati degnamente nemmeno da chi ha una coscienza sociale, è impossibile che ciò avvenga da parte di chi si nutre di pane e bomberismo. Un po’ lo stesso discorso del conflitto civile nelle regioni anglofone del Camerun, usato quasi come barzelletta da parte dei commentatori che divertiti ripetevano che i civili di quelle regioni non avrebbero potuto festeggiare le vittorie della propria nazionale, senza interrogarsi sul fatto che questa situazione sia una diretta emanazione degli sfracelli combinati dalle potenze europee; stesso copione nel Burkina Faso, in cui c’è stato un vero e proprio colpo di Stato durante la competizione che ha visto ben figurare “gli stalloni” o il tentativo fallito in Guinea Bissau, come se offrissimo da bere illimitatamente a una persona e poi facessimo barzellette sulla sua ubriachezza…
Perché prima ancora delle delusioni Algeria e Ghana, dell’eterna incompiuta Marocco o del beffato Egitto, la vera sconfitta è la nostra visione sfacciatamente eurocentrica.
Giuseppe Ranieri