Dopo l’ennesimo episodio di razzismo che qualche anno fa coinvolse Kalidou Koulibaly, il difensore del Napoli, in un’intervista rilasciata a L’Equipe Magazine, dichiarò che la vittoria di un trofeo in Italia o in Europa con il suo club sarebbe stata un’utile cassa di risonanza nella lotta alle discriminazioni. Seppure sia arrivata con la nazionale, la vittoria storica del Senegal in Coppa d’Africa ha aperto la riflessione su come il tema del razzismo non sia circoscritto agli stadi, ma sia piuttosto un problema endemico e culturale di una società che tende a considerare tutto quello che valica il mediterraneo subalterno al continente europeo.
Questa presunzione di superiorità attecchisce a principi di stampo ottocentesco, quando si è contribuito a edificare – per quel che concerne la penisola italiana - il mito della “brava gente” che conduceva spedizioni coloniali “con idee di vera civiltà”. Congetture che oltre a essere prive di qualsiasi fondamento storico, nel tempo si sono declinate con varie forme e adattate plasticamente al contesto di riferimento. La logica che tende a screditare tutto quello che non ricade all’interno del perimetro europeo rientra in quel fenomeno che l’attaccante partenopeo Victor Osimhen ha definito discriminazione indiretta: vale a dire la tendenza a una visione dell’Africa macchiettistica e stereotipata. Gli stessi tentennamenti che hanno fatto vacillare l’inizio della Coppa d’Africa per l’emergenza sanitaria non hanno fatto emergere soltanto il comportamento contraddittorio dei ricchi club europei che, nonostante il Covid, non hanno posto le medesime (legittime) preoccupazioni per le competizioni di loro competenza, ma anche come i rapporti dell’emisfero settentrionale con il continente africano siano fortemente incardinati a nuove forme di imperialismo.
Il trionfo del Senegal, oltre a rappresentare un unicum nella storia della competizione, offre la possibilità di ragionare su come esistano dei modelli vincenti, in tema di politiche sportive, capaci di scardinare i princìpi di non complementarità del calcio africano con quello europeo. La vittoria senegalese non è frutto del caso, ma è la gratificazione del lavoro certosino del tecnico Bruno Metsu che alle soglie del nuovo millennio iniziò ad arruolare nella nazionale calciatori con passaporto senegalese cresciuti in Europa. Un modello che consentisse di valorizzare i propri talenti decostruendo le logiche che consideravano il territorio africano solo come una terra di saccheggio. La vittoria dei leoni della Tèranga concede la possibilità di ricorrere a parallelismi storici che permettono di confermare come spesso lo sport sia stato in grado di ribaltare la dicotomia schiavo-padrone. Abbiamo già trattato la vicenda di Abebe Bikila, in un certo senso l’archetipo della rivalsa coloniale nella terra dei suoi occupanti; ma anche attraverso la storia della Coppa d’Africa è stato possibile rintracciare vicende che hanno contribuito a sensibilizzare sul tema dei conquistadores.
Così come il Senegal di Koulibaly ha dato dimostrazione di poter ribaltare i cliché africani attraverso una politica sportiva seria e solidale, con le dovute proporzioni, anche l’Etiopia di Luciano Vassallo ha squarciato il velo di omertà sull’esperienza coloniale italiana, consegnando un lascito di speranza nello sport come vettore determinante all’abbattimento delle barriere umane. Ripercorrere a ritroso la storia della competizione consente di raccontare una gara che è rimasta ben impressa nella mente dei tifosi etiopi, oltre che per il trionfo sportivo, anche per aver racchiuso un messaggio di emancipazione sociale e politico. Nel 1960, il cosiddetto anno dell’Africa, quando il processo di decolonizzazione virò in maniera decisiva verso l’indipendenza dei paesi che da anni non sopportavano più il giogo delle potenze europee, lo sport giocò sicuramente una partita cruciale nella comprensione del fenomeno coloniale. Nell’Africa in cui crebbe Vassallo, le politiche escludenti furono inasprite da una nuova disposizione normativa (ancora oggi poco ricordata), la n. 382 del 12 maggio 1940, che rappresentò un tassello fondamentale nella difesa della razza. Su questa scia di eventi la vita di Vassallo fu schiacciata dal peso esercitato dalla Storia con la S maiuscola che visse il suo paese durante la costruzione dell’impero fascista nel corno d’Africa, quando i ragazzi – come lui – nati da relazioni miste venivano considerati figli della colpa, appartenendo a quella zona grigia respinta tanto dai colonizzatori quanto dai colonizzati. Convinzioni che trovarono fondamento in una legge – che nei fatti gli precluse qualsiasi diritto – alimentando il suo senso di inadeguatezza nel mondo, come lo stesso Vassallo ha sottolineato:
“Era un inferno per quelli come noi. Quando avevo circa due anni mio padre fu trasferito ad Addis Abeba e di lui non abbiamo saputo più niente. Potrebbe essere morto in guerra o sopravvissuto, non l’abbiamo mai saputo. Al fatto di essere rimasti senza padre, si aggiunse la vergogna delle leggi razziali. Mi riferisco, in particolare, alla legge sui meticci varata nel 1940 da Mussolini con la quale venivamo di fatto considerati ufficialmente una razza inferiore, debole, non meritevole degli stessi diritti degli altri”.
Il rischio di “contaminazioni” della razza a causa delle gravidanze indesiderate – figlie delle violenze dei soldati italiani – vennero scongiurate da una barriera normativa che impedisse ai padri il riconoscimento del frutto del peccato. Ed è in un mondo dove si viene marchiati per delle colpe che esistono solo nella mente di chi punta il dito contro qualcuno – in cui occorre quasi doversi giustificare per essere ancora in vita – che l’unica prerogativa rimane aggrapparsi con le unghie e con i denti ai brandelli di speranza utili a immaginare un destino diverso da quello stabilito da altri. La speranza che Luciano Vassallo riuscì a rintracciare solo muovendo i suoi primi passi nella Stella Asmarina, una squadra di calcio composta interamente da meticci, che gli consentì di percepire una vita lontana dalle sofferenze e in grado di concedergli un posto nel mondo. Dopo aver superato, anche se in parte, i pregiudizi coloniali, il “Di Stefano d’Africa” intraprese una carriera brillante che gli permise di diventare non solo il capitano di una delle nazionali etiopi più forti di sempre ma rimanere ancora oggi il più grande marcatore nella storia della nazionale.
I trionfi in Coppa d’Africa dell’Etiopia così come quello del Senegal, tra l’altro entrambi avvenuti contro l’Egitto con il medesimo risultato, non rappresentano solamente una mera gioia calcistica, ma mettono in luce il calcio, non funga solo da volano del potere, ma è anche in grado di restituire la dignità ai popoli oppressi. Così come nel gennaio del 1962, nonostante i pareri contrari, ad alzare con la coppa con Vassallo ci furono (simbolicamente) anche tutti i meticci che si ritrovavano a riscattare una vita nell’ombra salendo a testa alta sul gradino più alto del podio, anche il trionfo dei leoni della Tèranga ha dato prova che anche nell’emisfero meridionale del globo è possibile costruire dei modelli vincenti da poter emulare.
Pierluigi Biondo