Maryan Trimiar, detta «Lady Tyger», non è stata la prima donna a salire sul ring. E neppure la prima campionessa del mondo ufficiale nella storia della boxe. Eppure la sua carriera pugilistica ha segnato una cesura decisiva. Il suo è uno spartiacque, c’è un prima e un dopo Lady Tyger.
A raccontare la sua storia è il libro Lady Tyger. La vera storia di Marian Trimiar: la ragazza venuta dal ghetto capace di combattere contro qualunque pregiudizio e di rivoluzionare il mondo della boxe uscito per Hellnation libri e scritto da Silvia Cruz Lapeña, dove viene narrata una vicenda poco conosciuta anche alle latitudini “compagne” ma che merita di essere ascoltata, perché mette in scena la vita di una pugile, di una donna e di un’afroamericana capace di sfidare i vertici del pugilato mondiale contro pregiudizi e discriminazione.
Lady Tyger nasce nella New York degli anni Cinquanta, precisamente nel Bronx. Lì il sogno americano ha la forma di case di mattoni tutte uguali, in cui si spera in un avvenire migliore che puntualmente non arriva mai.
A quel tempo Maryan non è ancora una pugile dalla testa rasata che sfida i benpensanti. È una ragazzina con gli occhi vispi che si diverte a giocare, a correre insieme al fratello e a mille bambini come lei. Quando torna a casa da scuola, cammina spedita e non si ferma mai. Il quartiere è invaso dall’eroina e i genitori le hanno detto di non perdere tempo sul tragitto verso la loro abitazione. Lei è felice lo stesso, non capisce fino in fondo ciò che la circonda. Per lei è tutto normale, anche il Bronx.
È il padre Calvin a portarla per la prima volta in palestra, ha appena dieci anni. Lì Trimiar sente una scossa percorrerle la schiena. E dopo aver colpito il sacco per la prima volta la sua vita cambia. Capisce che vuole boxare per sempre e che si guadagnerà il pane facendo a pugni. Sul quadrato e nella vita.
A essere sinceri, dopo il colpo di fulmine causato dal padre in quella palestra contro quel sacco, molto altro contribuisce a farle scegliere il mestiere del ring. Sono anni in cui la boxe ha il sapore del riscatto, ma è anche un «luogo» in cui non ci si sente soli come nel resto degli Stati Uniti, un paese che si va atomizzando ogni giorno di più. Ed è soprattutto per questo che decide di infilare i guantoni: «La colpa è stata delle troppe palestre che avevano aperto in quegli anni e che la chiamavano urlando: quando si affacciava vedeva ragazzi combattere, ridere, fare squadra».
Una delle prime palestre che frequenta è la Gleason Gym, un’istituzione del pugilato newyorkese. Qui è nato Jake LaMotta, qui si è allenato Muhammad Ali. Insomma qui si insegna la nobile arte e si diventa campioni.
Eppure nonostante sia ufficialmente incentivata la pratica femminile della boxe alla Gleason, Trimiar, nei primi anni Settanta, si sente una seconda scelta. Vede i suoi colleghi maschi godere di attenzioni che a lei non vengono mai riservate. Si sente trascurata, si sente una comparsa. Quindi infastidita dalla discriminazione cambia aria lasciando la palestra fondata da Bruce Silverglade. Vuole altro.
Dopo qualche peregrinazione, finalmente trova casa: la palestra conosciuta col nome di «The Gladiators» di Mickey Rosario e di Negra, sua moglie. Qui vengono accolti giovani sbandati che diventano futuri campioni. Ma soprattutto non si discrimina nessuno e le porte sono aperte per tutti. In questo luogo a metà fra la palestra e un’istituzione sociale Maryan Trimiar diventa una pugile. Qui assume i connotati di Lady Tyger, una che lavora di rimessa, che gioca sulla scelta del tempo, che provoca l’avversaria a mani basse, dominandola prima mentalmente poi fisicamente.
Non è un caso che Trimiar, più volte, ripeta: «Io non combatto, io faccio boxe». Ovvero pratico uno sport da combattimento, ma uso classe e tecnica, non mi limito a picchiare. Il suo è insomma un pugilato scientifico, pensato. Entra ed esce, ha un grande gioco di gambe. Fioretto più che sciabola, sweet science.
A chi le chiede il perché della sua scelta Lady Tyger risponde secca all’apice della carriera: «È il mio corpo ed è la mia vita». Rivendicando il diritto di fare a pugni e il fatto che nessuno debba esprimersi sulle sue scelte. Questo lo fa fin dall’inizio, sfidando chiunque, promoter, giornalisti e manager. E il sentire comune. È una pioniera, come tutte le donne che abbattono muri.
L’esordio è a 21 anni, il 4 maggio 1974. Di fronte si trova un’avversaria, Diane «Killer» Corum, di ben 24 chili più pesante, sugli spalti i genitori orgogliosi. L’incontro non è molto professionale, sembra quasi un’esibizione, ma è finalmente inserita in un cartello ufficiale di incontri maschili e Maryan Trimiar esordisce e vince. Lo fa per se stessa, lo fa per tutte le donne.
Fra il pubblico c’è chi storce il naso: per la mentalità dell’epoca la boxe è solo per uomini. Intorno al ring regna pesante un certo machismo e molti appassionati delle sedici corde considerano i guantoni esclusiva del genere maschile. Ma Lady Tyger vuole sfidare il senso comune, vuole far capire non solo che le donne hanno il diritto di boxare, ma che sono anche brave a farlo.
Ecco perché comincia una lunga battaglia legale contro la New York State Athletic Commission (Nysac), la massima autorità del pugilato nella Grande Mela. Infatti il pugilato professionista nello Stato di New York è vietato alle donne ma Trimiar non ha intenzione di sottostare a una legge che ritiene incostituzionale e si batte sul terreno legale, intuendo che l’opinione pubblica è la retrovia dove concentrare i suoi sforzi, che le persone comuni possono essere sue alleate, che la loro indignazione può far cambiare le cose. Comincia così un’attività instancabile di pressione mediatica, fatta di conferenze stampa e di politicizzazione delle sue battaglie. Capisce che deve comunicare, che deve «gridare» per far conoscere quello che subisce. Altrimenti non esiste.
Lady Tyger vuole far capire che questo non è solo sport, ma una questione di diritti civili e riguarda tutte e tutti. «Non tutte le pugili credono che quello che fanno abbia a che vedere con il femminismo, ma Lady Tyger sì: “È ovvio che pretendere la licenza da pugile ha a che vedere con il movimento di liberazione della donna”».
Le sue rivendicazioni però non si limitano appunto ai «diritti», ma toccano questioni più complesse come l’uguaglianza salariale. Insomma la sua vera battaglia si muove su questioni più specifiche: vuole far avere alle donne tutto quello che il professionismo garantisce agli uomini, in termini di denaro ma anche per esempio di assistenza medica e sicurezza. Non solo una semplice licenza di combattimento, ma un autentico riconoscimento di uguaglianza.
Lady Tyger calca il ring dal 1974 al 1985, capendo fin da subito che non basta solo boxare bene, ma che occorre anche essere un personaggio e provocare. Serve creare hype, per far parlare si sé e convincere l’opinione pubblica della discriminazione che sta vivendo sulla sua pelle. E lei non si tira indietro, bucando lo schermo e provocando gli addetti ai lavori e il pubblico, guadagnando qualche prima pagina e l’attenzione dei media.
In tutta la sua carriera fatta di 22 incontri ufficiali (18 vinti e 4 persi) non si è mai risparmiata, affrontando spesso avversarie più pesanti di lei, ma è innegabile che gli incontri più duri Maryan Trimiar li abbia combattuti fuori dal ring: contro le federazioni di pugilato, contro i promoter, contro i manager, contro un sistema che voleva che il pugilato praticato dalle donne fosse qualcosa di meno importante, più simile a un’esibizione freak, al wrestling, che al pugilato con la P maiuscola.
Lady Tyger, guascona e irriverente, ha combattuto sempre contro questa idea deleteria: per lei le donne dovevano praticare professionalmente il pugilato. Con buona pace dei grandi manager del pugilato – da Bob Arum passando per Don King – che l’hanno sempre osteggiata, impauriti da una donna capace di alzare la testa e rivendicare non solo i diritti ma anche i sogni. Il pane e le rose. È stata questa la battaglia di Maryan Trimiar, per tutti Lady Tyger.
Filippo Petrocelli