Arrivati a questo punto della stagione è tempo di verdetti. Il campionato di Lega Pro ha già il suo primo vincitore: il trionfo del Bari, mattatore del campionato con tre giornate di anticipo, ha posto la parola game over a un torneo concluso senza troppi affanni.
Ma il ritorno in cadetteria dei pugliesi dopo quattro anni tra inferno e purgatorio, è un ottimo spunto per porre l’accento su alcuni temi ampiamente scomodi e taciuti dai sepolcri imbiancati del giornalismo mainstream. Questa amara riflessione apparirà sicuramente rancorosa e piena di livore, ma lungi dal voler apparire fazioso, la vittoria della compagine di De Laurentiis jr (ampiamente meritata per il valore che il roster pugliese ha espresso in campo) mette a nudo le tante incoerenze del sistema calcio, che ho mal digerito anche quando – nelle passate stagioni – la posizione di classifica dei galletti era stata differente e a giocare il ruolo dell’antagonista non era stata la mia squadra del cuore.
Se tifare per una squadra di serie C (per giunta del sud) – e che per inciso naviga da più di trent’anni negli inferi del planisfero calcistico – può rappresentare un gesto rivoluzionario nella vasta platea di meridionali mossi invece da una fervente passione per gli squadroni del nord, mi permette anche di captare determinate storture agli albori della loro genesi, prima che queste risuonino nell’amplificatore mediatico che concede la massima serie.
Non volendomi soffermare sulle situazioni meramente di campo, dove in ogni caso rimane discutibile come in Lega Pro (campionato professionistico) episodi controversi non vengano tutelati con l’utilizzo della tecnologia messa a disposizione nelle serie maggiori, quello che passa sottotraccia è la possibilità che tra qualche anno potrebbe riproporre un nuovo caso Salernitana. La sempre più in voga politica delle multiproprietà, della cui esistenza sembra essersi accorti soltanto quest’anno, ha radici profonde con un ampio respiro internazionale. Già nel settembre del 2018, si palesò un lapalissiano conflitto d’interessi che coinvolse Lipsia e Salisburgo. Entrambe, nonostante fossero legate da un comune cordone ombelicale alla Red Bull, furono spedite dalla Uefa nello stesso gruppo del torneo di Europa League. Medesima politica persegue ormai da anni l’impero del City Football Group, una holding che detiene partecipazioni in sei club sparsi per il mondo: Manchester City in Inghilterra, New York City negli Stati Uniti, Melbourne City in Australia, Yokohama Marinos in Giappone, Club Atlético Torque in Uruguay e Girona in Spagna.
All’interno della penisola, prima ancora del lungimirante Lotito, Giampaolo Pozzo, proprietario dal 1986 dell’Udinese, fiutò la possibilità di allargare oltre i confini il suo core business. Nel 2009, solo dopo aver fallito l’acquisto dell’Espanyol, acquisì il controllo del Granada, che nel giro di due stagioni fu traghettato dalla terza divisione spagnola in Liga. Non paghi dell’esperimento andaluso (il club è stato ceduto nel 2016), i Pozzo decisero di proseguire l’esperienza con l’acquisto del Watford nel 2012. Se pur la proprietà friulana sia stata un’innovatrice nella penisola, decisamente progressista può considerarsi l’asse Lotito-Mezzaroma, che volendo mutuare il lessico degli economisti è considerabile come first mover italiano tra proprietà detentrici di più club nello stesso paese. Nonostante il campanello di allarme sul conflitto d’interessi fosse suonato nell’estate del 2012, quando la promozione in Lega Pro della Salernitana aveva costretto Claudio Lotito alla scelta scomoda della cessione tra uno suoi due club, come imposto dall’art. 16 bis delle N.O.I.F, il consiglio federale non applicò alcuna sanzione prevista dalla norma dal momento che la promozione nel campionato professionistico non era ascrivibile alla volontà dello stesso Lotito (una motivazione che metterebbe in crisi creativa qualsiasi brillante scrittore fantasy, non c’è che dire).
L’esperimento prodotto sulla cavia granata ha generato una serie di follower ambiziosi, come il caso del patron del Napoli Aurelio De Laurentiis, ingolosito dalla possibilità di gonfiare il suo portafogli con l’“affaire” Bari.
Sebbene per scongiurare la possibilità di riproposizioni analoghe al recente passato, sulle realtà ancora esistenti che coinvolgono l’asse Napoli-Bari piuttosto che Hellas Verona-Mantova, lo scorso settembre il consiglio federale abbia modificato il sopracitato articolo (tra i mugugni dei diretti interessati) decretando il divieto “di partecipazioni societarie gestioni o situazioni di controllo, in via diretta o indiretta, in più società del settore professionistico da parte del medesimo soggetto, del suo coniuge o del suo parente ed affine entro il quarto grado”, è stato stabilito il rinvio dello smantellamento dei legami societari entro la stagione 2024/2025. Ma se “concedere più di due anni e mezzo di tempo per avviare un percorso di cessione di una delle due società” rimane l’opzione primaria per la salvaguardia della competitività dei vari club, la scelta federale sembra non voler tener conto del problema alla radice.
Assumere provvedimenti per contrastare la lesione degli interessi soltanto quando i club co- proprietari si sono trovati a competere nella stessa serie, significa aver scalfito soltanto la punta dell’iceberg senza voler considerare tutto ciò che resta sommerso. Vorrebbe dire non valutare lo strascico anticoncorrenziale che fino a quel momento ha leso interessi e obiettivi dei piccoli club. La multiproprietà ha falsato la competitività nel momento stesso in cui la società viene costituita, in virtù della sperequazione economica rispetto a qualunque club - di lega pro o dilettante - sia pure esso il più ambizioso e spendaccione. Misurarsi con realtà di questo tipo dimostra tutta la fallacia di una politica federale disposta a foderare gli occhi di prosciutto e scoprirli solamente nel momento in cui (per loro) si palesi un potenziale conflitto d’interesse. Dover concorrere ogni anno con squadre capaci di fissare un monte ingaggi nei campionati minori da far invidia a club di Serie B conferisce il colpo di grazia alla già cagionevole condizione di salute in cui vive la Lega Pro, ogni anno orfana di svariati club che falliscono per dissesto finanziario. Le strade che conducono a campagne acquisti faraoniche per la categoria non sarebbero percorribili se alle spalle non ci fosse la solidità finanziaria della casa madre, che agevola la sua squadra satellite acquisendo lei stessa il cartellino del tesserato e facendosi carico dei relativi oneri. Una realtà che in questi anni ha plasmato il Bari, mettendo a nudo come l’interconnessione tra i due club non sia una discriminante di secondo piano.
Anche io voglio accodarmi alle lodi che in queste ore invadono i social, congratulandomi con il Bari e i suoi tifosi per essere tornati nel calcio che meritano. Un calcio che necessita sempre più di squadre blasonate, stadi pieni, bilanci trasparenti e magari proprietari onesti. Insomma, tutti valori che non esistono più!
Pierluigi Biondo