Peter Irving è una leggenda. Combattente professionista di MMA (mixed martial arts), antifascista e anarchico, allenatore, ma soprattutto gran persona. Questa intervista è apparsa originariamente in lingua polacca su Alerta Zine #4.
Sei senza dubbio un combattente molto esperto. Quando hai iniziato il tuo percorso nelle arti marziali?
Non ho iniziato presto, ma a 20 o 21 anni. In realtà troppo tardi per diventare un grande combattente. Ma mi stava bene così, sapevo di poter diventare un buon lottatore, ma era scontato non diventassi un “gigante” di questo sport.
Fin da piccolo sognavo di essere un commando. Ero convinto che sarei diventato un soldato d’elite. Mi vestivo in mimetica, compravo vestiti dell’esercito, leggevo tutto ciò che potevo trovare sul mondo militare, mi accampavo nei boschi e mi addestravo alla sopravvivenza e a tutto quel genere di cose “utili” per prepararmi alla guerra. Diciamo roba estremamente infantile da ragazzini. Quando sono diventato adolescente, ho iniziato a capire che il mondo era un po’ più complesso e ho iniziato a mettere in discussione alcuni assunti; mi sono insomma reso conto che i militari non sono proprio dei “bravi ragazzi”.
Penso che sia tutto iniziato dopo aver visto il vecchio documentario della BBC World at war. È un’ottima docu-serie narrata da Lawrence Olivier, che resiste alla prova del tempo. Il primo resoconto franco e non romantico della seconda guerra mondiale che avevo visto o letto e che documentava i crimini di guerra della RAF e la psicopatia di Bomber Harris (Arthur Harris, comandante della RAF durante la guerra, famoso per i bombardamenti notturni a tappeto delle città che causarono un numero altissimo di morti fra i civili e che sono stati criticati per la loro scarsa efficacia a livello bellico, NdT), una delle tante dimostrazioni pratiche che sfidavano la narrativa “buoni vs cattivi” che caratterizza ancora oggi la visione popolare che domina nella cultura britannica. Ovviamente quando sono diventato pacifista, sono stato costretto ad abbandonare quel progetto di vita, ma questa decisione consapevole mi ha impedito di seguire quello che pensavo fosse il mio destino e quindi, devo dire, mi sono sentito per un po’ depresso e senza obiettivi. Ci è voluto tempo per trovare un modo per riempire quel vuoto, ma le arti marziali mi hanno offerto, in qualche modo, lo stesso stile di vita disciplinato e la possibilità di essere considerato un’élite. Il combattimento è un buon modo per entrare in contatto con la parte più brutale della nostra natura umana. In altre parole avevo solo un irresistibile bisogno di fare male e trovare altre persone che sentissero la stessa necessità, mi sembrava l’unica cosa moralmente accettabile.
Quali diresti siano stati i tuoi più grandi successi nelle arti marziali?
Non saprei, per esempio ho battuto un peso massimo nel mio ultimo incontro di MMA, e questa probabilmente è stata la mia più grande soddisfazione. Ma sai, ormai sembra tutto così lontano. Ogni incontro mi appariva come la cosa più importante in quel momento, ma ora guardo con distacco a quegli eventi che sono tutti relegati nell’oblio della mia mente. È stato un periodo fantastico, ma è pericoloso continuare a vivere nel passato. Questo vale per chiunque, ma è davvero un rischio incalcolabile per gli atleti. Generalmente porta a raschiare il fondo del barile.
Il miglior consiglio che ho ricevuto è arrivato un po’ troppo tardi: “A nessuno frega davvero un cazzo di te. Quello che importa alle persone è come le fai sentire”. Ovviamente questa non è una verità assoluta, molti si prendono davvero cura di me, ma negli sport da combattimento purtroppo è così. Quando perdi, o quando è tutto finito, diventa dolorosamente palese. Ecco perché devi smettere appena puoi, altrimenti sei un morto che cammina e ti stai solo preparando a morire ogni giorno di più.
Ora il mio lavoro è quello di allenare e, se avrò fortuna, il mio più grande risultato sarà quello di lasciare qualcosa a questi ragazzi, aiutandoli a raggiungere grandi obiettivi, senza perdere l’integrità durante il percorso. Mi piacerebbe ora dire una frase banale tipo che fare le cose disinteressatamente per gli altri è la più grande ricompensa, ma onestamente non sono così illuminato. Queste frasette rassicuranti sono buone per i falliti. La verità è che tutto quello che volevo davvero fare nella vita era battere Georges St.Pierre! haha! (Georges St.Pierre è uno dei combattenti che hanno fatto la storia delle MMA e da molti è considerato il miglior combattente di sempre, NdT).
So che hai subito gravi infortuni durante la tua carriera. Se potessi cambiare qualcosa, faresti qualcosa di diverso o rifaresti tutto da capo?
Per quanto riguarda gli incontri, non c’è molto che avrei potuto cambiare. Sono rimasto parzialmente cieco per colpa di un dito nell’occhio nelle semifinali di un torneo al Cage Warriors. Purtroppo il mio cornerman non aveva il giusto livello di esperienza. Quando siamo tornati negli spogliatoi, gli ho dovuto dire di usare la piastra per gli ematomi sull’occhio. Però era una situazione concitata, qualcuno ha iniziato a parlarmi e mi sono distratto. Quando mi sono reso conto che stava spingendo il ferro dentro l’occhio invece che verso l’esterno era troppo tardi. L’occhio tumefatto si è chiuso come quello di Rocky, e il dottore al pronto soccorso si è rifiutato di curarmi perché stupidamente avevo ammesso di essermi ferito durante uno scontro fisico.
Poi ho subito alcune fratture agli zigomi per colpa di testate che mi hanno reso insensibile un lato della faccia. Una volta, all’estero, ho combattuto nella kick boxing contro un ragazzo con bendaggi irregolari e ho avuto vertigini dopo l’incontro, forse per una commozione cerebrale o forse a causa di un timpano perforato. Ovviamente avrei dovuto difendermi meglio, ma ho fatto quanto era nelle mie possibilità; è così che va, è normale. Questi sono i rischi del mestiere e se non ci fossero non ci sarebbe nemmeno quel brivido. Chiunque potrebbe farlo. Ma, a essere sincero, alla fine, i brutti infortuni negli incontri sono stati causati solo da colpi irregolari o comportamenti sanzionabili.
A dirla tutta poi, la maggior parte dei danni irreversibili che ho subito è stata causata probabilmente dal mio regime di allenamento, ho infatti sofferto della cosiddetta sindrome da sovrallenamento. Ho avuto diverse malattie: febbre ghiandolare, influenza suina. Sono quasi morto per un taglio del peso fallito che mi ha provocato insufficienze in diversi organi. Avrei dovuto prendermi una pausa per guarire, ma ero talmente concentrato sull’obiettivo e motivato che pensavo di poter andare avanti comunque e continuare a combattere nonostante tutto. Alla fine ho solo accorciato la mia carriera di anni e ho ottenuto prestazioni al di sotto delle mie possibilità.
A quei tempi c’era la cultura malsana di fare sparring duro in ogni allenamento, e anche quello mi ha tolto più di qualche anno di carriera. Gli infortuni erano all’ordine del giorno. Non c’era attenzione alle classi di peso durante gli allenamenti, e magari i pesi massimi leggeri o i pesi massimi non taravano forza e colpi, contro ragazzi come me che pesavano molto di meno. Pensavamo di essere dei duri, ma era una cultura molto controproducente a livello di salute e usura del corpo, ma nascondeva anche scarsa attenzione e cura verso gli altri. C’era troppa competizione all’interno delle palestre e perfino i tuoi stessi compagni di team volevano farti male, se solo ne avessero avuto la possibilità. Un ragazzo del mio angolo, durante un riscaldamento prima di un incontro, mi ha causato un infortunio che è peggiorato durante il combattimento, facendomi perdere. Un peso massimo mi ha colpito così duramente in testa da annebbiarmi la vista e da quel giorno non sono più stato lo stesso. Erano fottuti stronzi, a dirla tutta. Se potessi tornare indietro forse troverei compagni di allenamento più attenti, ma erano i migliori combattenti nella mia zona, quindi quella mi appariva come la cosa migliore da fare. Molti di loro si erano formati in Thailandia e lì avevano sperimentato un ambiente ostile in cui venivano trattati con durezza anche dai compagni, senza comprendere il fatto che in generale ai thailandesi non piacciono i farang (termine che indica gli stranieri, ma che ha anche una sfumatura negativa, NdT), e volevano solo dimostrare che gli stranieri erano inferiori, rendendogli la vita impossibile senza insegnarli molto. Molti di loro sono stati trascurati o maltrattati dagli istruttori, e hanno pensato che quello fosse un comportamento normale e l’hanno importato. A volte è successo anche a me in Brasile, prima che si verificasse il boom del turismo BJJ, ma in Thailandia attorno alla muay thai c’è sempre stato un grande giro di denaro e un atteggiamento di quel tipo.
Oggi c’è più attenzione e si sente spesso parlare di lesioni cerebrali: è vero se ne sa un po’ di più, ma c’è sempre scarsa conoscenza della materia. È innegabile. L’unica vera differenza è che oggi diciamo “encefalopatia traumatica cronica (CTE)” invece di dire – come una volta – è “suonato”. Detto questo al tempo non ci importava. Personalmente non pensavo di essere destinato a vivere così a lungo e quindi non mi sarei mai aspettato di dover pagare il conto. Alla fine, però, ci sono molti sport da praticare che non implicano di essere colpiti duramente, non sempre il gioco vale la candela e se non sei pronto a pagare il prezzo forse è meglio non cominciare neanche.
Hai passato tanto tempo a vivere e ad allenarti in Brasile. Ho letto alcune storie incredibili sui tuoi soggiorni da quelle parti. Hai condiviso il tatami con alcuni dei migliori combattenti del Paese. Capisco che potrebbe essere una domanda difficile a cui rispondere brevemente, ma puoi dirci qualcosa di più sul tuo periodo brasiliano? Come sei finito fra i migliori?
Già praticavo brazilian jiu-jitsu (BJJ), e per caso ne ho parlato con un mio amico, un ragazzo brasiliano che conoscevo nella scena punk. Si è scoperto che era cintura blu con Crezio de Souza, del leggendario team Carlson Gracie anni ’80, primi anni ’90. Quando Crezio è venuto a trovarlo, non potevo credere che quel piccoletto avesse combattuto contro Dan Henderson e avesse persino affrontato pesi massimi. Suppongo di avere la sindrome di Napoleone (Peter Irving non è molto alto, NdT), per questo subivo il fascino del jiu-jitsu: la possibilità di battere un uomo molto più alto e pesante. Crezio è diventato subito il mio eroe proprio per questo, e gli ho detto che volevo andare a trovarlo in Brasile per imparare da lui. Ripensandoci avrebbe potuto pensare che stessi dicendo stronzate, ma quando sono arrivato ha mantenuto la sua promessa. Non ho mai capito davvero perché si occupasse di me e mi dedicasse tanto tempo. Non avevo soldi né talento, ma mi ha formato senza chiedermi denaro e si è impegnato per aiutarmi a rimanere e allenarmi.
Di recente ha realizzato un video in cui parlava della sua esperienza con Carlson Gracie e ho percepito gratitudine quando ha raccontato un aneddoto in cui Carlson ha condiviso del cibo con lui. Lui era della favela, quindi non aveva soldi e non mangiava da giorni. Posso solo presumere che mi abbia aiutato perché a sua volta aveva ricevuto aiuto da Carlson. Molti sconosciuti mi hanno aiutato in Brasile. La loro ospitalità è stata semplicemente incredibile. Questo ha cambiato del tutto la mia visione del mondo. In realtà imparare a combattere è stata la parte meno importante del mio soggiorno lì. Non avevo nessuna fiducia nell’umanità prima di quel periodo, e non credo che l’avrei mai più avuta senza quelle persone.
È un Paese con enormi squilibri sociali, notoriamente. Corruzione e disuguaglianza che sono anche al di sotto degli standard sudamericani, ma sfido chiunque a non innamorarsi di quel luogo. Spesso vorrei non essere mai tornato nel Regno Unito.
Stai gestendo la tua palestra di MMA. Riesci a sopravvivere anche con la pandemia o c’è il rischio che tu perda la tua attività? Sembra che nonostante il periodo assurdo tu sia riuscito a preparare i tuoi combattenti a vincere in varie competizioni come Bellator ecc. Come ci sei riuscito?
È una situazione precaria, ma per adesso sopravviviamo. Fortunatamente i miei ragazzi hanno potuto prepararsi per Bellator dato che sono fratelli e vivono insieme, quindi non avevano altro da fare che allenarsi, c’era insomma sempre un compagno di allenamento a portata di mano.
I ragazzi della palestra invece hanno continuato a sostenerci finanziariamente il più possibile per garantire la sopravvivenza della struttura fino al giorno della riapertura. È stata una rivelazione scoprire quante persone si sono dedicate anima e corpo alla palestra.
Passando alla politica, ti sei sempre considerato anarchico e antifascista o ti sei politicizzato col tempo?
Mi interessa la teoria anarchica fin da adolescente e ho letto di tutto sull’argomento. Poi mi sono avvicinato al punk rock. In realtà, però, una volta vissuta la scena punk ho capito che qui l’aspetto politico era per lo più confuso o secondario, e le grida “anarchia!” erano solo slogan nei testi delle canzoni, che semplicemente si riferivano a una sorta di melange di nichilismo e apatia piuttosto che al vero ideale anarchico. Ho lasciato quel mondo un po’ disilluso e mi sono allontanato, staccandomi dalla militanza.
Quando ero immerso nei combattimenti, in realtà stavo un po’ scappando dal mondo reale, o meglio semplicemente interagivo col mondo unicamente attraverso la logica dell’allenamento e del combattimento. È difficile da spiegare ma in un certo senso quello stile di vita estremo e difficile, mi ha fornito un modo semplice per esistere – per “essere” –, permettendomi di non affrontare problemi complessi e più grandi di me. Problemi reali del mondo che mi circondava. Crearmi quotidianamente un insieme di ostacoli e difficoltà – anche se essenzialmente artificiali come durante gli allenamenti –, mi ha distratto da problemi personali e incombenti. Essere assolutamente risoluti in uno sport come questo, esserne così assorbiti, è stato insomma un grande sollievo dalle pressioni del mondo reale.
Alla fine ho avuto ciò che cercavo dal combattimento e sentendomi più forte e appagato sono stato in grado di vedere le arti marziali semplicemente come un lavoro piuttosto che come una filosofia di vita, e sono stato in grado di guardare di nuovo all’esterno, al mondo reale, ed esprimere un po’ di più le mie opinioni ideologiche senza temere confronti o ripercussioni.
Non hai mai nascosto le tue idee politiche, hai mai avuto problemi nel mondo delle arti marziali per questo? Qualche scontro?
Sorprendentemente, ancora niente. Arriverà un giorno, ma sai, sono sempre pronto. Anzi a essere sincero sono stupito non sia ancora successo.
Di sicuro se la palestra subirà attacchi o ritorsioni, sarà durante la notte quando non c’è nessuno. Questo è il rischio, ma se succederà saremmo pronti a ripartire da zero e ricostruire tutto. Sono invece scelte di campo come rifiutarsi di gareggiare nell’Absolute Championship Akhmat (ACA) di Kadyrov (promotion legata al leader ceceno, NdT), o cose del genere, che fanno sì che alcuni combattenti preferiscano altre palestre per competere. Lo accetto, non è un grosso problema per me.
Sembra che tu sia di casa in Polonia, arbitro a Freedom Fighters, tieni spesso seminari, stage, corsi ecc. Come è iniziata questa collaborazione?
Attraverso Kamil Siemaszko. Si è messo in contatto con me. Penso di aver attirato la sua attenzione quando mi sono opposto all’apparizione di Nikko Puhakka in Irlanda (il riferimento qui è alla partecipazione di un’atleta neonazista in una promotion irlandese chiamata Celtic Warriors nel 2013, NdT). Mi ha quindi invitato al torneo Freedom Fighters e non avevo idea di come sarebbe stato. Mi sono venuti a prendere all’aeroporto e mi hanno accompagnato a Rozbrat. Ero nel retro del furgone con tutti questi ragazzi polacchi grossi e dall’aspetto minaccioso, e abbiamo preso una strada sterrata in mezzo al bosco. A quel punto ho pensato: “Merda… e se questi non fossero della crew antifascista? Potrebbero portarmi nel bosco per piantarmi una pallottola in testa. Quando ho visto tutti gli adesivi punk rock sui cancelli di ferro ho tirato un sospiro di sollievo… Ahahah!”.
Devo essere sincero, quando hanno detto che era in uno squat, avevo un po’ di pregiudizi. Invece è un posto davvero bellissimo, ha questo “genius loci”, tutta creatività ed energia. È davvero qualcosa di speciale. Lo adoro. Ogni volta che torno mi sembra di non essere mai partito, anche se le visite sono a un anno di distanza. È una specie di magia che ha quel posto.
Cosa ne pensi del movimento in Polonia, cosa ti sembra?
Sono molto impressionato dal livello e dall’ampio spettro di attività, dalla rete e dalla cooperazione tra le crew di diverse città e regioni, e dei Paesi vicini. Adoro il modo in cui il movimento è davvero radicato nella comunità. C’è molto da imparare dai metodi e dall’attitudine dei militanti polacchi.
Qual è la tua opinione sulla scena delle palestre popolari nel Regno Unito? Vedi potenziale in questo movimento?
È difficile. Certo, c’è del buono in questo approccio. Adoro vedere la formazione di gruppi di allenamento autogestiti, l’organizzazione di tornei ecc., ho incontrato delle persone fantastiche in questo modo sia all’estero sia nel Regno Unito. Tuttavia sono un fanatico delle arti marziali, un elitario e ho una formazione diversa. Mi aspetto l’eccellenza, o almeno la ricerca dell’eccellenza.
In termini di insegnamento e formazione, da un punto di vista ideologico, sono in tutto e per tutto a favore dell’auto-organizzazione, del fai da te. Come professionista, però, penso che questa sia un’arte e un mestiere che ha bisogno di un livello molto alto di professionalizzazione: insegnare a qualcuno come rimanere in piedi, come respirare, come muoversi, è un passaggio necessario prima che qualcuno possa essere coinvolto in un processo “autogestito”, bisogna necessariamente avere grande consapevolezza di sé e del proprio corpo. Puoi rovinare il potenziale di qualcuno se non costruisci una solida base. Il problema è questo: all’inizio, senza compromettere un minimo ideali e principi, si rischia di non avere garantito un livello sufficientemente professionale, che possono darti solo un buon allenatore e un team esperto.
Quando si tratta di gareggiare, di competere, combattere diventa un lavoro duro, difficile, e semplicemente non è per tutti. Per non parlare poi di quanto sia arduo affrontare un vero e proprio scontro per strada. A ognuno il suo. Ci sono molte sfaccettature dell’antifascismo, e solo alcune volte è necessario lo scontro fisico ed è innegabile che alcune persone siano più adatte, ed è sbagliato illudere la gente che per imparare a combattere basta salire sul quadrato, muoversi fra le corde, o in gabbia o sul tatami. È più complesso. Ci vuole molto tempo per diventare esperti nelle arti marziali, molte ore, sforzi e dolore, solo per acquisire le basi. Alcune persone non avranno mai tutto questo tempo, né quello che serve veramente per combattere, ed è meglio saperlo prima che illudere qualcuno dicendo che l’importante è partecipare. Intendiamoci è molto importante e ha un grande valore organizzare tornei di boxe, muay thai, jiu-jitsu, MMA, ovviamente. Ma per essere efficace nella pratica, deve essere un vero combattimento. Non sono un sostenitore del semi-contact, o degli sparring “leggeri”, dell’esercizio fisico camuffato da sport da combattimento. Se deve essere uno strumento efficace, deve essere duro e reale. Come uno scontro autentico.
C’era una serie televisiva della HBO prodotta forse 15-20 anni fa, chiamata Roma. Non era esattamente I, Claudius (storica serie tv britannica ambientata nella Roma antica ben fatta e molto conosciuta nel Regno Unito, NdT), ma non era un malaccio. I protagonisti sono due legionari romani che diventano famosi in provincia e tornati a Roma vengono arruolati come guardie del corpo del giovane, futuro imperatore, Ottaviano. C’è una scena particolarmente significativa in cui una guardia del corpo impartisce a Ottaviano il suo addestramento quotidiano di scherma. Ottaviano non vuole affatto allenarsi e il suo allenatore cerca di incoraggialo sul suo potenziale. Il futuro Cesare gli dice: “Nel migliore dei casi sarò uno spadaccino mediocre”, e Pullo cerca di consolarlo: “Meglio di niente”. Ma Ottaviano lo corregge: “Ecco, ti sbagli. I cimiteri sono pieni di spadaccini mediocri. Meglio non essere affatto uno spadaccino che uno mediocre”.
Chi combatte sa quanto questo è vero. Un jab pigro o lento è peggio che non tirare un colpo, perché apri la guardia e puoi subire un contrattacco. “Giocare” al combattimento è controproducente e rischia di farti fare davvero male. Poi, allargando la visuale, qualsiasi immagine veicolata della lotta antifascista deve essere fonte di intimidazione per i nostri nemici ideologici. Sforzi controproducenti e allenamenti di basso livello possono e saranno sfruttati per caratterizzarci come dei pupazzi nell’immaginario di destra.
Puoi approfondire un po’ di più? È sicuramente un punto interessante, ma anche qualcosa su cui non posso essere completamente d’accordo. Per me la formazione può sempre essere utile, anche se non perfetta.
Per chiarire le mie idee sull’allenamento delle arti marziali, quando dico “a ognuno il suo” non voglio insultare nessuno. Mi riferisco piuttosto a sfruttare i propri talenti, le proprie skill. Dopotutto, viviamo nell’era dell’informazione e il più grande terreno di scontro dell’antifascismo è la battaglia per la verità: raccogliere informazioni, monitorare e scovare i fascisti, smascherare la disinformazione, organizzare, diffondere positive idee e così via, è questo il lavoro prioritario. Il confronto fisico è in un certo senso l’ultima spiaggia, un terreno da praticare quando tutti questi sforzi non hanno prodotto risultati e rimane comunque l’opzione meno preferibile. L’obiettivo per l’antifascismo non è vincere singole battaglie sui nemici, è arrivare a non avere nemici da combattere. Ovviamente questo significa “togliere l’acqua ai pesci”, combattere le basi materiali che producono il fascismo in modo da impedire il reclutamento e lasciare quest’ideologia screditata, sepolta in un passato a cui appartiene solo come monumento alla stupidità umana. E questo richiede una strategia su più livelli, di cui solo una piccola parte è strettamente fisica. In altre parole lo scontro fisico è la punta di una lancia, o il manico – a seconda della prospettiva – ma resta marginale, non centrale. È importante non romanticizzare o fantasticare sul combattimento, soprattutto se si intende non solo l’ambito sportivo. È una cosa brutta, necessaria; ma non è da esaltare o incentivare rispetto a lavori militanti in apparenza più banali. È solo un’abilità appresa come tutto il resto, e come tutto il resto alcune persone hanno una predisposizione maggiore o minore, e il potenziale per eccellere in questa cosa o in un’altra.
Detto questo non sto dicendo che non dovresti dipingere a meno che tu non possa diventare il prossimo Matisse, ma probabilmente non è utile sognare di essere un pittore famoso se non hai mai preso una matita in mano. Non dovresti smettere di cucinare per te stesso e i tuoi amici solo perché non sei Pierre Gagnare, ma non dovresti aprire un ristorante se non sei bravo. Lo stesso vale per le arti marziali. Salute, forma fisica, forza e abilità motorie dovrebbero far parte della vita di tutti e sicuramente appartengono a uno stile di vita anarchico. È importante però capire cosa stai effettivamente facendo ed essere certo delle tue capacità e delle prospettive. Per alcuni questo significherà non stare in prima linea, proteggersi dietro qualcuno più esperto nei momenti appropriati, capire quando scappare o magari impugnare una macchina fotografica o un computer invece di serrare i pugni nel momento della verità. Dopotutto le arti marziali, se praticate correttamente, non sono l’arte di tirare calci e pugni ma l’arte della strategia. La pratica marziale insegna tanto a livello strategico, su tutti i fronti. Dobbiamo giocare a scacchi, non a dama.
Voglio essere chiaro, non intendo scoraggiare nessuno. Anche se non tutti sono tagliati per lo scontro fisico, qualsiasi allenatore esperto potrà dirti che spesso sono le persone più improbabili a diventare campioni, mentre i più promettenti spesso sono grandi delusioni. Per esempio ho un’amica che ha perso tutti i suoi primi incontri ed era solita scoppiare in lacrime nello spogliatoio, ora è diventata una grande campionessa. Ho avuto uno studente che si è classificato nella top ten britannica di MMA, ha avuto parecchie strisce vincenti, ha combattuto contro avversari thailandesi di livello in Thailandia ecc. Anni dopo mi ha confessato che era solito aspettare fuori dalla palestra per cinque o dieci minuti ogni giorno, provando disagio e sentendosi estremamente nervoso per quello che gli sarebbe successo durante lo sparring. Alla fine ce l’ha fatta, però aveva le qualità. Qualcosa nel profondo della sua natura. Dipende davvero da te. Voglio solo chiarire quanto sia difficile l’impresa.
Devo farti questa domanda. Cosa pensi di Jeff Monson? Molte persone in Occidente sembrano ancora pensare che sia una specie di combattente antifascista impegnato in politica.
Bene, il retroscena del mio problema con Monson è questo: era stato contattato per un seminario dai nostri amici greci, e dopo essersi accordato ha ricevuto un anticipo sulle spese di viaggio. Successivamente ha annullato il suo impegno, e non è riuscito a rimborsare l’anticipo e alla fine ha interrotto i contatti dopo aver promesso di tornare in un secondo momento o almeno di risarcire il dovuto. Ma ormai sono passati tanti anni.
Poi l’ho seguito un po’ attraverso i social, ma è difficile sapere quali account siano effettivamente gestiti da lui, quali dai suoi assistenti o quali invece siano solo fan page. Ho sentito però storie simili a quella occorsa ai miei amici, alcuni lo dipingono semplicemente come inaffidabile, altri proprio come disonesto. Successivamente quando ha abbandonato qualsiasi velleità anarchica scegliendo l’ingresso nella politica russa tradizionale, ho pensato di “smascherarlo” e quando ho trovato alcuni suoi account attivi sui social l’ho un po’ trollato. Ho fatto domande educate sull’uso di steroidi e sul perché avesse abbracciato le bugie di Putin ecc., solo per provocarlo, ma non ho ricevuto risposta. Forse l’ho toccato sui suoi punti deboli.
Comunque Monson ha detto di non essere mai stato in contatto con i nostri compagni greci, e che era tutta colpa di un manager, che ha truffato anche lui. Non posso provare o smentire le sue affermazioni, anche se la storia non torna del tutto. Onestamente però, se fossi stato io, e anche se fosse stato davvero il lavoro di un manager senza scrupoli, avrei preso la somma di tasca mia e l’avrei ripagata solo per salvarmi la reputazione. Non era una somma di denaro straordinaria, soprattutto per una persona come lui. Fin dall’inizio era abbastanza evidente che non avesse intenzione di risarcire la crew di Salonicco, io ho semplicemente insistito per smascherarlo e per divertirmi un po’, se devo essere onesto.
Alla fine, la mia opinione su Jeff è questa: eravamo entusiasti di avere un’icona di sinistra a un livello così apicale, con una considerevole dose di visibilità in uno sport dominato da una cultura di destra: dagli atleti, ai fan, ai promoter. Vedere un compagno protagonista di eventi UFC disputare titoli mondiali, poi affrontare poliziotti antisommossa durante le proteste e proiettare quindi un’immagine di forza costante sfoggiando una stella anarchica nera e rossa – che sembrava ripeto offrirci collettivamente finalmente uno spazio in uno sport influenzato da una cultura destrorsa e dominato da persone ambigue – era una vittoria ideologica per tutto il movimento. Non sono mai stato un vero fan dei combattimenti dei pesi massimi, per una questione di gusto personale, ma ero molto felice come tutti gli altri che lui fosse là fuori, al centro della scena. A dirla tutta, penso che sia stato sciocco da parte nostra – sia collettivamente sia individualmente – proiettare i nostri valori e le nostre speranze su una persona come Jeff, ma capisco quanto fosse difficile resistere. Non credo sia mai stato un individuo particolarmente impegnato, né forse tanto formato in ambito politico. Dopotutto, ha sempre sfoggiato falce e martello accanto a simboli anarchici. Non so se sia mai stato in grado di comprendere le contraddizioni o meno, ma una volta ha tenuto un evento in un locale anarchico a Manchester nei primi anni 2000, di fronte alla palestra SBG, ed è stato davvero tanto sconclusionato e molto confusionario. La sua risposta a una domanda del pubblico sulla contraddizione fra valori anticapitalisti e il lavoro per un’azienda di intrattenimento come Zuffa, è stata a dir poco imbarazzante, priva di logica, e confermava la sua totale mancanza di educazione politica o considerazione di questioni del genere.
Non lo conosco personalmente, ma capisco i dilemmi e le sfide che devono affrontare i combattenti professionisti in questa nostra epoca, e penso che lui si sia legato, senza pensarci troppo, a chiunque potesse offrirgli qualcosa, anche con una grande ingenuità. Non ho intenzione di farmi un po’ di pubblicità fingendo di avere problemi con Monson. Ci sono nemici reali e più importanti là fuori che hanno bisogno del nostro impegno e della nostra attenzione, non ha senso perseguire faide interne. Sono solo triste che non sia l’uomo che speravo fosse, ma le colpe stanno nel mezzo: è colpa sia mia sia sua, perché non basta avere un tatuaggio per avere le stesse idee. Evidentemente diamo significati diversi a quegli ideali. Per chiudere direi che ora sembra davvero un devoto comunista sovietico, ma certamente non è un anarchico; e se qualcuno è ancora un suo fan perché pensa che quel suo tatuaggio sia una rappresentazione autentica degli ideali anarchici, allora purtroppo anche lui, come me, deve alzare le mani e arrendersi all’evidenza.
È come quando sei bambino, o adolescente, e hai commesso una cosa talmente grave che tua madre o tuo padre non si arrabbiano neanche, dicono solo che hai tradito la loro fiducia. Così la punizione è peggiore: “Non sono arrabbiato, sono solo molto deluso”. Ecco io mi sento deluso.
Conosci abbastanza bene la scena BJJ. Non è un segreto che lì molte persone hanno idee politiche e visioni del mondo a dir poco ambigue. Diresti che sono principalmente gli Stati Uniti e il Brasile a soffrire di questo problema, o è una questione anche altrove?
In Brasile la storia del jiu-jitsu è intrisa di classismo, e quel mondo ha sempre flirtato con élite militari, polizia e politici di alto rango. Probabilmente per una questione strettamente economica, per farsi pagare da chi aveva necessità di apprendere quegli insegnamenti e mettere in pratica quelle tecniche. Ma più in generale, forse, c’è una connessione fra la cultura samurai che è stata importata dal Giappone insieme alle tecniche marziali e l’elitarismo militarista.
Il jiu-jitsu con gradi e divise, si presta anche alla spersonalizzazione del singolo, a limitare la sua volontà e riplasmarlo attraverso un’impostazione marziale – e tutto questo può essere molto funzionale alle idee di destra. Motivo in più, credo, per non lasciare campo libero ai fascisti in questo mondo. Qualunque sia la causa a monte di tutto questo, penso comunque che questa “visione” del BJJ sia più diffusa in Brasile e negli Stati Uniti, ma esiste, in una certa misura, anche nelle palestre di jiu-jitsu del Regno Unito. Non in termini strettamente ideologici, ma in un modo più sottile. Non esiste un fascismo manifesto nei circuiti di jiu-jitsu o MMA, certamente non tra i vertici o le persone influenti. Ci sono però diversi tentativi di proselitismo e diffusione di idee più ambigue, quasi proto-fasciste, complottiste, trumpiste o alt-right. Poiché queste sono per natura più ambigue e meno dirette, sono anche più difficili da smascherare.
Prendi per esempio il caso del nazista di Lipsia (qui il riferimento è a Timo Feucht, ultras del Lokomotiv e neonazista, coinvolto nel 2018 in una spedizione punitiva di carattere razziale, NdT) che ha visto recidere il suo contratto con l’UFC. È seguita una protesta di fan e altri atleti disperati che invocavano il perdono, insistendo sulla sua redenzione e l’aver chiuso con un passato burrascoso. Oppure il cosiddetto “nazista della palude” (Adam Stockdale, NdT), che in un torneo IBJJF durante una lotta è stato notato avesse una svastica fatta in prigione ed è stato smascherato. La discussione che è seguita in un importante forum di BJJ nel Regno Unito è iniziata con una paccottiglia di post che insistevano sul fatto che quello fosse un simbolo religioso, con il sempre verde: “È un simbolo di pace indù. Conosci la sua storia?”. Haha, divertente! Poi un mucchio di persone si è stracciato le vesti, perché sapete, tutti meritano una seconda possibilità e tutti dovrebbero essere perdonati per le loro intemperanze giovanili, soprattutto se si scusano per questo. Ma poi, in realtà, questa sua presunta redenzione si basava solo sulle parole del suo istruttore, un uomo sconosciuto nell’ambiente. Una rapida ricerca ha rivelato che la White House BJJ (la sua palestra, NdT) era fondata e gestita da un ex cecchino dell’esercito americano, che sosteneva di aver prestato servizio durante la “guerra al terrorismo”. Poi era diventato semplicemente un membro delle forze dell’ordine che durante un turno di lavoro era finito sulle prime pagine dei giornali per essersi schiantato contro un’auto – nelle prime ore del mattino – nel parcheggio di uno strip club, mentre stava scappando per un conto non pagato.
Ma non è tutto: si scopre poi che il praticante di BJJ in questione, aveva fatto la galera per un pestaggio di gruppo ai danni di un giovane latino senza nessuna colpa – al grido di “White Power!” – e che quello stesso praticante aveva un debole per guidare il suo pick-up con bandiera confederata in giro per la sua città trasmettendo attraverso un sistema di altoparlanti retorica nazionalista bianca. Quindi non proprio un episodio marginale o un errore di gioventù.
Imperterrita, la discussione si è spostata su “ma la sinistra è peggio!”. Basta controllare le statistiche sull’Olocausto vs. Gulag/rivoluzione culturale ecc. ecc. È la solita vecchia merda di Facebook, la conosciamo tutti. Comunque la percentuale di indignati per la svastica era residuale, e perfino una buona parte di coloro che possiamo tranquillamente definire come non razzisti, si sentiva abbastanza a suo agio nell’essere inclusiva con un nazista, anche dopo che i suoi crimini erano stati resi pubblici, solo sulla base del vecchio adagio che “sport e politica non vanno d’accordo”. L’idea che forse consentire ai nazisti di partecipare alle competizioni sportive significhi legittimarli dal punto di vista politico, non li ha neanche sfiorati.
Le palestre di MMA, muay thai e BJJ qui nel Regno Unito sono una rappresentazione piuttosto fedele delle visioni politiche interne al paese, sono quasi tutte mainstream, moderate, e non c’è un’inclinazione al radicalismo o all’estremismo. Insomma l’accettazione dei nazisti nel mondo di BJJ o MMA ci dice molto non tanto sullo stato di salute della scena delle arti marziali, ma piuttosto sull’inclinazione generale del pensiero pubblico britannico. Non c’è ancora l’accettazione del nazismo come posizione legittima, ma esiste un desiderio perverso di perdonare e offrire una seconda possibilità solo ai suprematisti bianchi; mentre nel contempo, si sostiene senza remore la revoca della cittadinanza alla 15enne arruolata dall’ISIS (qui il riferimento è alla storia di Shamima Begum, NdT) che ha impedito l’adozione del suo bambino da parte dello Stato, causandone la morte. Insomma in altre parole le persone, in nome della libertà di parola, accettano senza problemi idee di destra, mentre quelle stesse persone si battono strenuamente contro la “cancel culture”.
Come Paese, ci siamo dimenticati che i nazisti non sono soggetti con cui ragionare e parlare, ma fottuti stronzi assassini di bambini che devono essere picchiati e messi a tacere.
Tuttavia, non direi che ci sono solo cattive notizie. A conti fatti, anche se sento dire a molti che le palestre possono, in qualche modo, essere un veicolo per spingere le persone verso destra, c’è un numero sempre maggiore di persone che si mescolano, formano amicizie, apprezzando background etnici e culturali diversi e questo, generalmente, favorisce la comprensione, la solidarietà e la pace. Sebbene ci siano poche “palestre popolari” in senso esplicito, mi sento di dire che è un’esperienza molto diffusa nella maggior parte delle palestre che vedo. Una palestra per cui combattevo è nata nella stessa città che dove è stato fondato il National Front. Le tensioni razziali tra bianchi, neri e le comunità migranti è sempre state alta e forse continuerà a esserlo. Ma credo davvero che la palestra in questione sia stata fondamentale nell’evitare il diffondersi di molti incidenti. C’erano ragazzi che sono diventati compagni di squadra e che avrebbero potuto accoltellarsi a vicenda per strada se non fosse stato per quella palestra. E questo puoi vederlo in ogni città in giro per il mondo.
Passando oltre le arti marziali, ho visto le tue foto con una cresta gigante, mentre canti in una band. Raccontaci di più sul tuo passato punk.
Sì! Ho suonato in un paio di gruppi punk. La mia prima band faceva davvero schifo, ma abbiamo fatto da supporto agli Oxymoron, agli UK Subs e agli Oi Polloi, e alcuni altri, un periodo molto divertente. Ero in un’altra band che ha aperto per i Damned. Ci chiamavamo CS Gas e una volta il giornale locale pubblicò casualmente un articolo poco dopo l’uscita della nostra prima demo, che diceva: “La polizia ha usato CS Gas per porre fine all’assedio”, facendo riferimento a una situazione occorsa poco prima in cui erano stati presi degli ostaggi nel nostro quartiere. Ovviamente, tutti i nostri amici sono venuti al concerto con una copia del giornale, l’hanno alzata e hanno detto: “Ai poliziotti è bastato far ascoltare i primi due pezzi del vostro album di merda, e il sequestratore è uscito con le mani alzate!” Hahaha!
Qualcosa che vorresti dire ai lettori di ALERTA?
Solo alcune banalità: allenatevi duramente, non mollate mai e grazie a tutti per aver scelto il lato giusto della barricata.
(traduzione per Sport Popolare a cura di Filippo Petrocelli)
Sport Popolare ringrazia Alerta Zine #4 per averci concesso la possibilità di tradurre quest’intervista. Ma ringrazia anche Peter Irving per essere la persona speciale che è.