Sono giorni vorticosi nel mondo dello sport: le notizie si rincorrono furibonde e sembra difficile rallentare, analizzare, comprendere a pieno quello che accade. Quello che accade, soprattutto, fuori dagli stadi, dai palazzetti.
Per orientarci abbiamo bisogno di fissare alcuni punti cardinali che non ci facciano perdere la rotta durante la bufera, e le coordinate geografiche sono dei nomi e dei cognomi: Ricardo Centurión, Paola Egonu, Lorenzo Musetti, Ronaldo Luiz Nazário de Lima, Zaynab Dosso.
Sono i nomi degli atleti più chiacchierati di questi giorni. Sono i nomi degli atleti finiti nell'occhio del ciclone mediatico. A dirla tutta, però, a finire in questo gigante e tortuoso tritacarne non sono tanto i loro nomi o le loro gesta sportive, no; sono soprattutto i loro corpi.
I corpi di Ricardo Centurión, di Paola Egonu, di Lorenzo Musetti, di Ronaldo Luiz Nazário de Lima, di Zaynab Dosso sono dei corpi in rivolta, sono i contenitori che incarnano nella sostanza e nella materia il senso più profondo del disagio dei nostri tempi. I loro corpi, ognuno per un motivo diverso, sono la cartina tornasole attraverso la quale possiamo guardare un mondo deumanizzato, bulimico, spietato.
La vita, scriveva Gabriel García Márquez, non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. E allora noi andremo spediti, tratteggeremo un profilo molto sintetico di ognuno di loro per arrivare al nucleo della questione, al cuore pulsante nascosto tra queste righe.
Ricardo Centurión, calciatore argentino transitato anche per l'Italia, ha di recente dichiarato di soffrire di una fortissima depressione: sono stanco della vita.
Paola Egonu, pallavolista azzurra, ha denunciato l'infamia razzista ricevuta dopo che le è stato chiesto, per l'ennesima volta, come potesse lei – lei nera, lei che anni fa disse di amare una donna – essere italiana.
Lorenzo Musetti, giovanissimo tennista toscano, si è accasciato al suolo durante una partita a causa di un attacco di panico: non respiro, non ce la faccio, ha detto al suo tecnico Simone Tartarini presente a bordo campo.
Ronaldo, il fenomeno, ha raccontato in un'intervista di avere sofferto di problemi legati alla salute mentale e di andare in terapia da due anni e mezzo.
Zaynab Dosso, velocista italiana, ha riportato invece di essere stata aggredita verbalmente – vattene, p*ttana straniera – mentre era in un locale di Roma e che nessuno sia intervenuto per arginare l'episodio.
Queste storie sono diverse tra di loro, si differenziano per genesi, evoluzione, contenuti ma, a conti fatti, hanno un filo rosso che le lega: il corpo. Il corpo al centro del mirino. Il corpo pronto a implodere, a tremare.
È il corpo dell'atleta a parlare, a essere inquisito, a essere vivisezionato, a insorgere. È il corpo dell'atleta che perde la sua forma statuaria e diventa, all'improvviso, fatto di atomi e nervi. Il corpo parla e traduce in biologia e carnalità il malessere diffuso.
È il colore del corpo della Egonu e della Dossu quello che viene predato, ostracizzato, razzializzato.
È la testa di Centurión, di Musetti e di Ronaldo quella che insorge, che si rivolta, che sfugge al controllo.
La materia dirompe e traduce in occhi, pelle e respiro quello che succhia da fuori, dal mondo che ci ruota intorno. La materia strilla e rivendica il suo spazio. Uno spazio libero dalle tossine del razzismo, uno spazio libero dall'ossessione della performance. Uno spazio più umano in cui ognuno possa e debba essere degno abitante del pianeta, della società in cui camminiamo.
E in questa lotta di legittimazione, di autoaffermazione abbiamo un alleato potentissimo: la narrazione e il suo potere di tracciare linee, creare ponti, collegamenti.
È necessaria e urgente una narrazione che la smetta di ascrivere l'insofferenza dei corpi a una battaglia individuale, a uno sfogo intimo e personale ma mantenga invece salda una visione di insieme; una visione globale che ci faccia scorgere, ci faccia sentire tra le pieghe di questi corpi, l'urgenza di un corpo collettivo, di un corpo collettivo in rivolta. Una narrazione che allarghi lo sguardo, perché la salute mentale e le discriminazioni non siano solo un affare individuale ma diventino una questione pubblica, trasversale, collettiva.
Che la pretesa di un paese derazzistizzato, la pretesa di una società più lenta e meno performante non siano più relegati a piagnistei da salotto, a bizze del singolo, ma siano una priorità nella vita sociale e civile di tutti.
Ci vuole il cuore per sentire. La lotta per ardere. La penna per tratteggiare un sentiero.
Perché in un mondo marcio ci siamo dentro tutti; dobbiamo curarci, accarezzarci, ma anche guardare fuori e avere la lucidità necessaria per dire che certe cose fanno schifo.
Prima di crollare tutti come birilli.
Prima che il nostro corpo si sfaldi.
Francesco Fontana