Darrel Standing è un detenuto del carcere di San Quentin, un centro di reclusione a nord di San Francisco. Il reato non lascia spazio a troppe interpretazioni: Standing, professore universitario del College of Agricolture dell'Università di California, è in carcere per l'omicidio ai danni di un collega, il professor Heskell. Sulla vicenda, scrive lui, non ci sono da discutere i torti o le ragioni, e infatti non lo faremo nemmeno noi. Rettifichiamo però soltanto una cosa: Darrel Standing scrive, sì, ma lo fa per mano del suo autore, del suo burattinaio Jack London. È dalle sue viscere, infatti, che è fuoriuscito questo personaggio, protagonista di Il vagabondo delle stelle. Le botte e gli scossoni che incassa Standing sono gli stessi che l'autore ci rifila pagina dopo pagina; duri, ruvidi, aspri. Pretende dedizione e coraggio per poterci spingere nella selva che ha preparato per noi; ci chiede anche di tenere gli occhi aperti e monitorare la realtà circostante per non diventare conniventi e collusi con il marcio imperante, con gli aguzzini e i torturatori.London infatti, in pieno fervore socialista e progressista, condanna qui la ferocia del sistema carcerario statunitense e la stasi criminale dell'opinione pubblica; mette sulla graticola sia l'infamia della mano che colpisce l'innocente sia il silenzio omertoso - ma intriso di sangue - del pubblico.
Non è un libro, non è un romanzo; è piuttosto un viaggio spirituale, un'iniziazione epifanica. È un fitto intreccio di situazioni, di chiusure e di aperture, di prigionia e di libertà; è un grido, a tratti un rantolo, di vendetta. Si soffre, durante la lettura, si soffre fisicamente per il macabro epilogo che attende il protagonista, ma c'è qualcosa di inspiegabile che ci dà la forza di respirare fino alla fine del romanzo: è una scintilla, minuscola e ficcata nella pareti umide del buio del carcere, è quella consapevolezza che sa di riscossa, di rivalsa. È il sacro fuoco crepitante in noi che non potrà mai essere davvero spento, da nessuna mestizia, da nessuna infamia; più verrà soffocato e, anzi, più proromperà impetuoso. Questa non è la storia privata di Darell Standing: ci sono dentro tutti i reietti, gli esuli, gli oppressi - ma non vinti - della storia.
Se potessimo, con un esercizio tutto immaginifico, cambiare nome e geografia al protagonista del romanzo, lo collocheremmo qui, vicino a noi: a Roma, ad esempio, agli inizi del nuovo millennio, e lo investiremmo di un nuovo nome e cognome, Stefano Cucchi. Standing è opera di fantasia, Cucchi no. Le botte incassate dal primo sono opera di fantasia, quelle che hanno ammazzato il giovane romano no. C'è qualcosa che li lega e li tiene insieme indissolubilmente, scavalcando l'astrazione di uno e la concretezza dell'altro, i secoli che li dividono, e quel qualcosa è la dignità estrema e assoluta che li eleva a nobili creature rispetto alla meschinità dei loro torturatori. Standing, nel suo diario verso la morte, appunta i nomi dei suoi genitori, della madre Hilda Tonnesson e del padre Chauncey Standing. Non hanno un ruolo decisivo ai fini del racconto. Al contrario, nella costellazione famigliare di Stefano Cucchi compaiono dei caposaldi decisivi, dei punti cardinali: la madre Rita Calore, il padre Giovanni Cucchi, e la sorella Ilaria. Il 15 ottobre del 2009 Stefano cena per l'ultima volta con i suoi, prima di venire brutalmente strappato dal suo microcosmo famigliare: Rita, Giovanni e Ilaria lo rivedono, livido e ammaccato, solo all'udienza in seguito al suo arresto per possesso di stupefacenti e infine sette giorni dopo, morto ammazzato.
Darrel è da solo nella sua prigionia, è in isolamento, è un caso irrecuperabile. Stefano è in compagnia della morte che porta i nomi delle guardie Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. In una settimana è dimagrito tremendamente, arrivando al peso di trentasette chili; come un cane di grossa stazza, come una bestia qualsiasi, non di certo come dovrebbe trovarsi un essere umano incarcerato. C'è qualcosa però, si diceva prima, che tiene accesa la fiammella, e che seppur la tragedia scava nella carne e sanguina incessabilmente, ci legittima a tenere la testa alta, ad esserci, a tramutare il dolore individuale in un dolore collettivo, in una riscossa collettiva. Standing, condannato all'ergastolo, matura nel tempo la certezza assoluta che la sua vita non finirà certo con l'impiccagione. Rinascerà, ancora e sotto svariate forme, e guarderà dall'infinito le bassezze dei suoi aguzzini. Travalicherà lo spazio e il tempo perché è altro da loro, dalla loro lordura; lui è materia purissima. Ed Morrel, detenuto anch'egli, gli insegna infatti il modo per evadere dalla camicia di forza che lo attanaglia, lo soffoca e gli sgretola la cassa toracica quotidianamente. Gli insegna un esercizio di profonda concentrazione abile a farlo passare dalla costrizione fisica a viaggi astrali enormi e infiniti. Guardatemi, infami, legato e asfissiato, parrebbe sussurrare Standing, guardate come guizzo via, tra le nubi e le stelle. Stefano Cucchi è morto assassinato tra le botte e il freddo di un carcere, da solo. È dolcissimo pensare, però, a sua sorella Ilaria, lei come Ed Morrel, lei il suo trampolino per viaggi cosmici, oltre l'atmosfera, lontano dal buio, dal fetore, dalla morte. Ilaria, come l'ergastolano amico di Standing, gli fornisce l'immaginale bacchetta magica per librarsi in volo, andare in alto oltre il rumore sordo delle botte sul suo corpo e oltre al mormorio putrido della macchina della delegittimazione. Calunnie, bassezze, depistaggi hanno raccontato Stefano come un povero tossico, evidentemente in precaria salute fisica, evidentemente in difficoltà per le sue crisi epilettiche. Una narrazione perniciosa che è andata di pari passo con l'iter giudiziario: Darrel Standing muore nella convinzione di travalicare la materia; Stefano Cucchi muore, invece, tutti i giorni, dal ventidue ottobre duemilanove, fino a quando non verrà scritto nero su bianco che i colpevoli della sua morte sono Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Non la presunta tossicodipendenza, non l'epilessia, non una caduta accidentale dalle scale. Ilaria, con l'aiuto dei suoi famigliari, sussurra nell'orecchio di Stefano la formula magica per evadere, scappare via. E se questo non si è potuto concretizzare nella materia, nella biologia, nella vita fisica, è successo lo stesso: il nome di Stefano è là in alto, e quello dei suoi carnefici è giù, conficcato nelle budella della terra. Roba che se il paradiso e l'inferno non esistono li dovremmo creare noi.
Nelle ultime pagine del romanzo, Standing scrive delle parole di una potenza estrema. Sono parole incendiarie, esplosive: Io sono un uomo nato da una donna. Ho pochi giorni, ma la mia sostanza è indistruttibile. Io nascerò ancora. Proprio così: rinascerò un incalcolabile numero di volte, ma nonostante tutto quegli stolti imbecilli che ho intorno credono che basti tirarmi il collo con una corda per finirmi. Ci piace pensarle anche nella bocca e nel cuore di Stefano, sussurrate, biascicate. Perché noi lo sappiamo bene chi è la vittima e chi è il colpevole, e sappiamo bene anche la materia di cui è impastato l'uno e l'altro. E lo sapeva anche London, che anche se ci regala un finale funereo non ci lascia del tutto l'amaro in bocca. Perché come recitano le piazze, i muri, i cortei: Carlo – e Stefano, e Federico, e Riccardo, e Giuseppe – vive, i morti siete voi.
Francesco Fontana