Il Mondiale in Qatar che inizierà il prossimo 20 novembre resterà senza alcun dubbio un evento sportivo controverso. Le perplessità, attorno alla celebre kermesse, non si limitano al periodo dell’anno in cui si disputerà, ma anche al riaffiorare di antiche e nefaste consuetudini. Si era evinto già nell’inchiesta del 2013, condotta da “France Football”, come la designazione della sede ospitante il Mondiale di calcio fosse stata in realtà manovrata da un accordo di bottega. L’indagine aveva dimostrato come il 23 novembre 2010, durante un pranzo all’Eliseo, l’allora presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy assieme all’emiro Al Thani e Michel Platini avessero definito l’accordo per l’acquisizione del PSG da parte del fondo qatariota Sports Investments in cambio dell’assegnazione del Mondiale.
Un’intesa, quella avvenuta nel cuore del potere politico parigino, che seppur comprovata, non aveva sortito alcuna inversione di rotta sulla sede prescelta, sommandosi a tanti altri aspetti indigesti che ruotano attorno a questa storia. La mancanza di morale nell’affaire mondiale è, infatti, anche arricchita dalle numerose denunce di sfruttamento dei lavoratori impiegati nella costruzione degli impianti da gioco, 7 dei quali edificati appositamente per l’evento. Secondo “The Guardian” sono circa 6.500 gli operai che hanno perso la vita durante i preparativi, in virtù di un circuito di abusi senz’altro facilitato dal sistema della Kafala, ritenuta da molte associazioni internazionali una forma, neanche troppo velata, di schiavismo. Nei fatti, questa legge avalla la condotta spregiudicata sull’ingente serbatoio di migranti che periodicamente ingrassano la manodopera del Qatar e permette al datore di lavoro di farsi carico dell’accoglienza attribuendogli un potere assoluto sul lavoratore che, per non essere espulso dal paese, deve sottostare al giogo del padrone. Dall’ultimo sondaggio, condotto da Amnesty International, tra il 16 agosto e il 6 settembre, è stato messo in luce come circa il 73% delle persone adulte ha ritenuto doveroso un risarcimento della Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (FIFA) per i danni inflitti alle famiglie per la morte dei propri cari.
Nonostante la mole di indagini e denunce raccolte finora, nessuno tra i principali organi di informazione sportiva del nostro paese ha proferito opinioni a riguardo. Sarebbe stato interessante, invece, conoscere la loro posizione sulle ragioni che hanno spinto la FIFA a voler disputare un Mondiale in un paese che sistematicamente calpesta i diritti umani e non solo sentire esternare sentimenti di indignazione per la mancata qualificazione della nazionale italiana: emittenti televisive patinate che esaltano l’efficienza delle strutture futuristiche costruite tra Doha e dintorni, mettendone in risalto la modernità e l’efficienza. Impianti d’ultima generazione, ecosostenibili (addirittura smantellabili e temporanei), realizzati avendo cura dell’abbattimento dei costi e della salvaguardia ambientale. Tutte cause nobili, sia chiaro, peccato sfugga il particolare più importante: il sacrificio di migliaia di uomini per vederli realizzati. Un atteggiamento ipocrita da parte della stampa e dei tesserati che non giova alla ricerca del senso di giustizia, ma presta il fianco alle storture di sistema che non sono di certo una novità nella storia sportiva.
Quando il Sud America venne schiacciato dal pugno di ferro delle dittature militari, questa realtà fu oscurata dai Mondiali di calcio del 1962 in Cile e quelli in Argentina del 1978, offuscando le violenze del regime di Pinochet e il fenomeno della desaparicion di Videla. Così anche in Brasile nel 2014, le contestazioni della popolazione per gli sperperi di denaro a discapito dei servizi primari furono soffocate dal baluginio delle stelle del pallone. Le ragioni di un così profondo lassismo possono essere ricondotte a quel metodo che i paesi anglofoni definiscono sportwashing, ovvero un sistema con cui gli Stati tirannici ripuliscono la loro immagine agli occhi dell’opinione pubblica sfruttando l’appeal delle manifestazioni sportive. Una strada che i governi autoritari intraprendono per rimodulare il loro identikit, riuscendo a fornire una narrazione positiva rispetto alla realtà dei fatti, anche grazie alla connivenza da parte di chi, ricoprendo ruoli apicali, come nel caso di Joseph Blatter, ha sempre ritenuto "il calcio più importante dell'insoddisfazione delle persone". Un modo eloquente per riproporre in chiave moderna un antico ma sempre verde “fine che giustifica i mezzi”.
Eppure, davanti all’indulgenza dei molti, si sono palesati numerosi esempi di resistenza a questa deriva morale, nella convinzione che non possa esistere alcun compromesso di fronte alla lesione anche del più elementare dei diritti umani. Quello che Eric Cantona ha definito “un orrore umano capace di sacrificare migliaia di esistenze sull’altare del business e dello spettacolo”, Freek de Jonge, storico organizzatore del fallito boicottaggio di Argentina ’78, lo ha ribadito a gran voce, ritenendo queste iniziative “un veicolo per la crescita del dibattito”; un approfondimento che talvolta può rappresentare un moto di coscienza. Per tanti (troppi) ancora l’aspetto sportivo resta avulso dalla società, ancorato ai troppi ipocriti e asfittici gesti simbolici. C’è chi in questa lotta strenuamente per far sentire la propria voce e chi continua a sotterrare la testa, spesso convinto che qualsiasi azione di contrasto sia destinata all’insuccesso, vista la mole di denaro che un evento del genere muove, o chi, come i calciatori, si sente esente da responsabilità perché richiamato a svolgere il proprio mestiere, senza sapere quanto fosse vero e attuale quello che cantava De André: “che per quanto uno possa credersi assolto, resta lo stesso coinvolto”.
Pierluigi Biondo