Milano è una città che è capace di strapparti il cuore, ridurlo in brandelli. Come diceva Lucio Dalla nella canzone, meravigliosa, che ha dedicato a questa metropoli: “Mi prendi allo stomaco mi fai morire”. Ed è così. Invivibile, letteralmente, perché ha venduto la sua anima ad affaristi, politicanti, tragattini, mezze figure tutte contraddistinte da fame di denaro. Invivibile perché è la patria della gentrificazione e in nome di essa è pronta a sacrificare i suoi figli, che l’hanno fatta grande, per avere visibilità o fama. Invivibile perché quando esci appena fuori dalla zona centralissima, per intenderci Duomo e limitrofi, ti ritrovi nelle periferie che, ormai, si stanno uniformando alla zona di Porta Nuova – quella del Bosco Verticale – con il costo al metro quadro insostenibile e che l’amministrazione vuole letteralmente espellere non solo con azioni di polizia ma, soprattutto, silenziosamente attraverso la politica del decoro. Questa, però, vale solo per i “miserabili” che abitano nel ghetto e non per chi ha un ISEE sopra i sei zeri. Un esempio è nella zona di San Siro dove, per arrivare al Meazza, lo stradone divide ville di notabili dalle case popolari. La contraddizione servita per chi vuole guardare entrambe le facce della medaglia di questa città. Milano è veramente, come raccontano in molti, esclusiva ma nel senso peggiore del termine. Meritocratica e orizzontale, solo per una narrazione tossica.
Milano, però, è tantissimo altro. Senza scomodare Jannacci, Fo, Strehler, Gaber, Primo Moroni, basta conoscere i veri milanesi. Quelli che la vivono, quelli che combattono tutti i giorni, che si inventano nuove forme di resistenza e che si oppongono al deserto che gli si sta costruendo attorno. Lo si è visto in questi primi giorni di marzo in cui proprio loro, i milanesi, sono andati in via Cagni per aiutare i richiedenti asilo e non lasciarli soli davanti alla brutalità dello stato, sono scesi a decine di migliaia in piazza per fronteggiare le politiche repressive sui corpi dei migranti e delle donne, che resistono e si aggregano nei quartieri per rivendicare il diritto alla casa, alla socialità. Tutto questo si fonde inevitabilmente con il “Gioco”. Il pallone fa da collante e basta prendere qualche tram per visitare tre luoghi simbolo di questa splendida fusione: Giambellino, Bonola e Gorla. Tre forme diverse di intendere il calcio e la politica attiva. Tre modi di fronteggiare l’esclusione e le battaglie sociali. Tre modi che, come detto, trovano nel prato verde e in un pallone che rotola su di esso la naturale piattaforma comune.
Proprio dal centro cittadino, dalla Madunina, che si può prendere il tram n. 14 e andare verso il Giambellino. Sì, proprio quello del Cerutti Gino – il Mago di Gaber e del suo bar. Dopo una mezz’ora abbondante di viaggio, nel quale gli avventori del tram, fermata dopo fermata, mutano nella loro composizione umana e sociale, si arriva a Piazza Tirana. Al DLF si allena l’Ardita Giambellino: un gruppo di ragazzi e ragazze, tutti giovanissimi, uniti dal Comitato Lotta per la Casa di quartiere – proprio in contrasto con la gentrificazione galoppante – e che hanno trovato nel pallone la seconda passione comune. Una resistenza che nasce dalla lotta politica per finire sui campi e che, su di essi, porta i suoi contenuti specifici e sociali. Tutti e tutte, o quasi, del quartiere. Tutti e tutte a cui se parli de l’Orda D’Oro o delle gesta di Sante Notarnicola – altro poeta bandito che ha calcato le strade meneghine – non possono che risponderti citandone estratti. Vogliono tutto, giustamente: casa, luoghi di aggregazione, politiche sociali dal basso e redistribuzione. Sono tutti e tutte giovani e belli.
Altrettanto belli e belle sono i ragazzi e le ragazze di Bonola. Quelli del Partizan. Qui, per arrivarci, devi andare verso la Scala del Calcio e passare sotto la sua ombra imponente. Però, basta fare qualche centinaio di metri e ti ritrovi immerso nel calore dei BRB – Bravi Ragazzi Bonola. Il cuore pulsante del quartiere e della squadra. Loro hanno usato il calcio per fare da collante a un quartiere in cui ci sono vie larghe e palazzoni, dove chi ci abita esce al mattino per andare a lavorare e ritorna, stanco, la sera per cenare e andare a dormire. Anche perché il quartiere offre poco. Per ovviare a questa mancanza politica e sociale, i ragazzi e le ragazze del Partizan hanno fondato questa meravigliosa realtà che funge da contenitore per tutti e tutte che si riconoscono nei valori antirazzisti e antifascisti. I BRB ne sono la ciliegina sulla torta. Invito chiunque possa e voglia ad andare a vedere una partita sugli spalti: bellezza disarmante. Bisogna anche tenere considerare che la stessa bellezza l’applicano sul campo da gioco: le squadre hanno infatti un ottimo rullino di marcia nei rispettivi campionati.
Infine, il Piccione di Gorla. Una squadra il cui nome non può che tradire la sua origine: il St. Ambroeus (Sant’Ambrogio – santo protettore della città). Nascono dalla fusione di diverse squadre già presenti in città raccogliendo realtà sportive e sociali quale quelle dei Black Panthers, i Corelli Boys e i Corelli Lions, i Blue Boys e la Thomas Sankara FC. Hanno fatto del movimento e dell’impegno diffuso lo spirito che anima le loro casacche: sono presenti ovunque ci sia un corteo, una manifestazione, un presidio. Vantano una presenza massiccia sugli spalti, la stessa che poi si rivede per le strade. Alcuni loro membri sono della crew della Iuventa, una nave di soccorso migranti. Una St. Pauli milanese benché senza un quartiere di riferimento: il loro è la città. L’espressione più bella è l’Armata Pirata, veri e propri ultras, composta da giovanissimi. La loro coreografia per il ventennale della morte di Dax ne è piena rappresentazione dello spirito.
Queste tre meravigliose realtà ridanno un volto a questa città e la rendono vivibile, bella, da capire fino in fondo e la cui vera faccia è da grattare sotto lo strato di smog e catrame che affoga corpi e sogni. A Milano puoi dichiarare vero amore a patto che tu sia pronto vederne il volto, seppur sporco e non patinato. Capire il dna del milanese: solidale, concreto, schietto e felice nonostante l’inferno di cemento che gli aumenta tutt’attorno e quando parliamo di milanese non intendiamo “Il Fumagalli” ma chiunque sia disposto a esserne complice e a riconoscersi davanti al suo cuore. Il calcio, come sempre del resto, fa da collante e da fattore aggregativo e, nonostante l’amministrazione comunale e di quartiere, le due più blasonate “strisciate” che solcano il prato di San Siro, queste realtà crescono e si diffondono capillarmente. Sono tutte forme di Resistenza e, per questo, sono tutte bellissime.
Simone Renza