È possibile mettere il calcio italiano sul banco degli imputati senza rispiarmargli nulla e allo stesso tempo far comunque trapelare un amore viscerale per lo stesso? Sì, è possibile o almeno Juri sembra riuscirci.
La storia è quella di un ex giocatore di serie A che viene condannato per scommesse e si ritrova catapultato improvvisamente dal mondo patinato e fluorescente della fama a quello sporco e doloroso della polvere della comunità, perfetto capro espiatorio e cibo ideale per sciacalli di ogni tipo. Sullo sfondo il sofferto passaggio di proprietà del Torino a Cairo e i relativi scontri di quell’estate del 2005. Ma in questa storia vengono passate in rassegna tutte le contraddizioni del “gioco più bello del mondo”, dai dirigenti padroni ai tifosi da divano, dai giocatori mercenari, al mondo delle scommesse e dei traffici, segnando un parallelismo fra due ambienti altrettanto fasulli soprattutto quando si intrecciano, quello del calcio professionistico e quella della giustizia, entrambi in mano ai potenti.
E allora che spazio rimane per la passione e per il momento estatico del gol, per la maglia da difendere e per il coro da cantare? Sono solo illusioni infantili o peggio proiezioni di un mondo che non c’è piu? Juri sembra non chiudere totalmente la porta alla speranza, individuandola nel più contradditorio – ma a pensarci bene più genuino – dei protagonisti del calcio, l’ultras, tanto sporco e violento quanto libero e coerente. Forse, tornando alla domanda iniziale, l’accusa al calcio rimane possibile e lecita proprio perché lo si ama alla follia. E così il “calcio di oggi” (la definizione di “calcio moderno” in voga da qualche anno non mi piace perché rimanda a ipotetici periodi di splendore che erano tali solo perché sono passati) torturato con sadismo e perfidia sembra mantenere un ancora di salvataggio. Forse.
Gianmaria Lenelli