Poche settimane fa il governo guidato dalla premier Giorgia Meloni ha avuto una sua ennesima idea nazionalista. Era infatti inizio giugno quando, l’amministratore generale della Lega Calcio Lugi De Siervo, affermava, in una intervista rilasciata al quotidiano spagnolo “As” che da quel momento all’estero il maggior campionato calcistico nazionale sarebbe stato riconosciuto con il nome di “Serie A-Made in Italy”.
Una delle tante buffonate decise da questo esecutivo. Ma si sa che tale governo nonostante faccia l’aria da padrone a livello continentale, almeno finora, ha dovuto subire molte più batoste anche dai suoi amici più fidati in Europa. Non dimentichiamoci, a tal proposito, il voto contrario di Ungheria e Polonia all’ultimo Consiglio Europeo che doveva decidere sulla redistribuzione dei migranti nel Vecchio Continente.
Il nome scelto dall’esecutivo sul campionato nazionale, a parere di chi scrive, non rispecchia realmente ciò che sta avvenendo nella serie A attuale. La massima competizione calcistica del Belpaese infatti, negli ultimi anni, ha visto l’arrivo di sempre più proprietari stranieri che hanno messo sul tavolo milioni di euro con cui sono riusciti a salvare numerose società calcistiche che si trovavano sull’orlo del fallimento economico e societario.
Di esempi, in questo ambito, se ne possono fare di numerosi da nord a sud della Penisola. A nord dello Stivale abbiamo il Milan che è americano e l’Inter cinese, la Juventus che pur mantenendo la storica società firmata dalla famiglia Agnelli/Elkan ha pure sempre la sede in Olanda. In Emilia, invece, le due società più rappresentative di quella zona: Parma e Bologna, sono anche esse in mano americane.
Spostandosi al Centro e al Sud Italia la musica non cambia: l’AS Roma, dopo l’infelice parentesi della gestione dell’italo-americano James Pallotta, ha cambiato proprietari, i Friedkin, che però vengono sempre da oltreoceano, non più da Boston ma dal caldo Texas. A Firenze si è insediato un emigrato calabrese filo-juventino proveniente da New York.
Insomma tutti nomi che con quel Made in Italy, così caro dalle parti di Palazzo Chigi, hanno ben poco se non nulla a che fare. La questione di questa sostituzione (non etnica però, certi concetti infami li lasciamo a determinati ministri dell’attuale esecutivo nostrano) riguarda anche i calciatori che, fino a poco tempo fa, vestivano le maglie delle più importanti squadre della Serie A.
Una tradizione, quella di andare a giocare nel campionato saudita, lanciata da una decina d’anni che però ha avuto la sua svolta a fine 2022. Il 30 dicembre di quell’anno infatti venne ufficializzato il passaggio dell’attaccante portoghese Cristiano Ronaldo, che aveva appena rescisso con il Manchester United, alla squadra della capitale saudita Riad: l’Al-Nassr Football Club
Una scelta, quella del fuoriclasse lusitano, che è stata dettata prevalentemente dall’offerta messa sul piatto dalla proprietà araba. In due anni e mezzo di contratto CR7 percepirà uno stipendio pari a 252,45 milioni di euro.
Questa è in assoluto la cifra più alta mai raggiunta per uno stipendio di un singolo calciatore. In serie A ci sono decine di squadre che non arrivano a spendere neanche lontanamente una cifra simile per stipendiare tutti i loro tesserati.
Di seguito a quel trasferimento è iniziata una vera e propria fuga verso i cosiddetti petroldollari di Riad. Ultimo in ordine di tempo sembra essere il centrocampista serbo della Lazio Milinkovic-Savic che sta accettando la proposta dell’Al-Hilal Saudi Club, l’altra squadra di Riad e storica rivale dell’Al-Nassr.
Anche in questo caso si trattano di contratti milionari che però non si avvicinano minimamente alle cifre scandalose di Cristiano Ronaldo. Savic ha seguito, nelle ultime settimane, colleghi come Karim Benzema e Kalidou Koulibaly.
Il centrocampista serbo rompe un nuovo tabù. Per la prima volta un calciatore di 28 anni nel pieno della sua esperienza professionista, accetta un contratto di un campionato che, da molti (in modo giusto o sbagliato che sia) viene ritenuto qualitativamente inferiore rispetto a quelli europei.
Mi è capitato di parlare di questa nuova tendenza della geopolitica del pallone a livello mondiale. Molte volte la risposta al perché di questo cambio di rotta era che oramai era una nuova sfida a livello globale l’entrata nell’elite calcistica dei paesi del Golfo Persico.
Positiva o negativa che fosse tale apertura andava accettata perché, dopo l’assegnazione dei mondiali in Qatar nel 2022, era stata voluta dai paesi calcisticamente più sviluppati.
Tutto questo in barba alle numerose inchieste che vedono coinvolti i paesi della Penisola Arabica riguardante il tema dei diritti umani.
A questa decisione, per fortuna, c’è chi riesce a dire di no e a fare scelte che hanno ben poco a che fare con la visione capitalista mondiale. Pochi giorni fa un club come il Bayern Monaco ha preso una decisione rilevante su un tema alquanto delicato a ogni latitudine: quello dello sponsor.
Il club bavarese, infatti, tramite l’assemblea dei suoi soci, ha deciso di far terminare il contratto con la compagnia Qatar Airways nonostante, anche in questo caso, erano a disposizione un bel mucchio di capitali.
Come si legge sul sito “TuttoStPauli.com” questa decisione è stata votata a un’unanimità dai soci le cui mozioni e proteste erano diventate tantissime anche negli anni precedenti agli ultimi mondiali in Qatar. Sono stati numerosi i report di importanti ONG che sollevavano più di qualche dubbio sulla trasparenza totale del governo di Doha.
Tale fatto può essere ricollegato ancora una volta al concetto di associazionismo sportivo che in terra teutonica la fa da padrone. Grazie a questa realtà le squadre di tutte le categorie tedesche sono radicate nei loro territori e sono migliaia i soci locali che le sostengono e le amministrano ottenendo in cambio numerosi vantaggi come abbonamenti e possibilità di andare in trasferta.
Al centro del concetto di associazionismo sportivo vi è infatti una cosa fondamentale: il capitale umano. Ogni cosa viene decisa e deliberata da coloro che poi ne usufruiranno in maniera più diretta.
Questo fa sì che, nella Bundesliga, non ci sia la necessità di investitori esterni, soprattutto se stranieri. Anche avendo rotto l’accordo con i milionari qatarioti, il Bayern riuscirà a levarsi numerose soddisfazioni sul campo anche nei prossimi anni.
E intanto, a Berlino, non hanno minimamente pensato di rinominare, all’estero, il loro campionato “Made in Germany”…
Roberto Consiglio