Alberto Ginulfi se n’è andato ed è lutto nel mondo del calcio e della A.S. Roma in particolare.
Un signore di ottantadue anni con mani forti e sguardo duro cresciuto nel popolare quartiere operaio di San Lorenzo, per di più un romanista verace, un proletario e soprattutto un portiere di calcio. Sicuramente tra i migliori del suo tempo in Italia, seppur circondato da una concorrenza agguerrita nel ruolo che negli anni ’60-’70 vi era nel nostro paese e nel resto d’Europa. Fu coevo di Zoff, Yashin, Albertosi e Paolo Conti giusto per citarne alcuni.
Mostri sacri evidentemente. Lui nell’Olimpo del Calcio non ci entra ma un suo gesto sì. Sarà storia felice e maledetta allo stesso tempo il ricordo di quella parata.
Il semplicistico titolo L’uomo che ipnotizzo Pelè non rientra nel nostro linguaggio, è una favola stucchevole, oggi si ricorda un uomo e un professionista, anzi per usare le parole del Corriere dello Sport di allora, un “portiere moderno”. E si perché amava Sentimenti IV, rilanciava, era partecipe e organico alla squadra, era coraggioso e spettacolare, non aveva limiti. Se non un cuore fragile che gli precluse palcoscenici più importanti. Ricordava la sua aritmia cardiaca e la paura che la sorte del compianto Giuliano Taccola, toccasse anche a lui. Fu fuori per un po’ e tornò appesantito, intimorito. Tutto ciò non gli precluse la possibilità di giocare ancora e tanto e tratti bene, molto.
Una carriera quasi ventennale nei professionisti, quindici di cui nella sua Roma, lui, romanista e bandiera giallorossa. La prima Coppa Italia della storia dell’AS Roma e anche una Coppa Anglo-Italiana nella sua bacheca. Uno scudetto da secondo allenatore nel Napoli di Maradona.
Qualche anno fa lo incontrai a San Lorenzo per un’intervista prima di un’iniziativa sul calcio, nella sua casa, nel suo quartiere, e vidi un uomo felice che girava nelle strade che erano state il suo rifugio o a Largo degli Osci, il suo primo reale campetto di calcio. Parlammo tanto del calcio e del giocatore che fu, dei bombardamenti di San Lorenzo, del suo lavoro come pescivendolo, di sua mamma e di suo papà. Portava un cappellino del Barcellona FC. Era contento che non gli avessi chiesto solo della sua parata contro il Santos, perché lui non fu solo quella, fu molto molto di più. Fu un ragazzo schivo e tormentato come tutti portieri, conobbe la fatica e la guerra in giovane età e fu anche l’unico portiere italiano a parare un rigore a Edson Arantes do Nascimento. Quel 3 Marzo del ’72 la Roma perse due a uno contro i campioni brasiliani, loro come diceva lo stesso Alberto erano una “Rometta”, eppure la gloria che dura solo un attimo investì quel bel giovanotto.
Pelè prende la rincorsa anormalmente lunga, Alberto ha tempo di studiare le mosse ma ha davanti a sé il portento brasiliano, sa che un calciatore così non è scontato, più lui accelera più lui lo guarda, più decelera più si rannicchia, quando scaglia il suo piattone destro Alberto non tituba e si tuffa, in bello stile alla su sinistra. Pelè è annichilito.
A fine gara ci fu il rituale scambio di maglia e in una famosa foto dell’epoca lo stesso Pelè da un buffetto simpatico ad Alberto. Un’immagine evocativa. A fine gara è addirittura invitato d’onore all’ambasciata brasiliana a Roma, e mentre sorseggia una bollicina in compagni del bomber Sormani, qualcuno gli si avvicina e gli chiede se vuole andare a giocare in Brasile per il Santos, forse tra il serio e il faceto, ma Alberto si affaccia dal finestrone che dà sulla magnifica Piazza Navona e in un attimo dichiara amore eterno a Roma sua.
Che la terra ti sia lieve.
Daniele Poma