Nel corso della sua storia millenaria, Roma ha conosciuto momenti di forte crisi. Uno di questi durò dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944 quando la Città Eterna venne occupata dalle truppe naziste con il supporto dei collaborazionisti fascisti.
In quel lasso di tempo la Capitale subì una furiosa e quotidiana repressione portata avanti da figure quali Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, ed Erich Priebke, uno degli ideatori di quello che è conosciuto come l’Eccidio delle Fosse Ardeatine.
A tale brutalità la popolazione romana riuscì a rispondere. Furono infatti molti gli episodi di resistenza agli occupanti che interessarono in quel periodo le strade attorno al Tevere . Il più famoso è conosciuto come l’Azione di via Rasella, ideata dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica), datata 23 marzo 1944, in cui persero la vita ben 33 nazisti del battaglione nazista Bozen.
Per tale ragione Roma subì tre importanti rastrellamenti, da parte degli eserciti del Terzo Reich. Uno avvenne il 16 ottobre 1943 e prese di mira la popolazione ebraica del Ghetto locale.
Ma questo fatto non era certo una novità nell’Europa occupata dai nazisti dove si stava portando avanti una idea folle quale quella dell’Olocausto legata al concetto della cosiddetta “soluzione finale”. I rimanenti due rastrellamenti invece interessarono non solo cittadini ebrei ma anche altri esponenti della galassia resistente a Hitler.
Il primo si verificò il 7 ottobre 1943 quando ben 2000 cavalieri del regio esercito vennero arrestati con l’accusa di essere dei veri e propri difensori della casa reale dei Savoia. Il secondo è datato 17 aprile 1944, nella borgata di Roma sud-est del Quadraro, e colpì in particolare la popolazione locale. Mercoledì prossimo cadrà l’ottantesimo anniversario di questo evento simbolo della Resistenza capitolina.
Fin dalla presa di potere del fascismo, avvenuta dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, il Quadraro era una delle zone in cui i locali che resistevano contro l’oppressore erano tra i più numerosi.
La situazione non cambiò dopo l’8 settembre 1943, giorno della firma dell’Armistizio con le truppe anglo-americane da parte del generale Pietro Badoglio. Da quella data il nemico da combattere diventò l’esercito nazionalsocialista di Berlino.
Il Quadraro rientrava in quella che era stata definita “VIII zona partigiana”. Le zone erano le divisioni con cui gli occupanti nazisti avevano diviso la capitale italiana per poterla controllare meglio.
Le truppe tedesche ebbero vita particolarmente dura all’interno della borgata che corre lungo la via Tuscolana. Visti i ripetuti attacchi ai soldati di Berlino e alle scritte minacciose che si leggevano sui muri, la più conosciuta delle quali fu “Achtung Banditen”, gli ufficiali del Reich ribattezzarono il Quadraro con l’appellattivo “Nido di Vespe”.
L’anima antifascista della borgata era conosciuta in tutta la città. Per sfuggire alle persecuzioni degli occupanti venne inventato un detto molto famoso che veniva spesso usato dalla popolazione romana in quel periodo: “o vai al Vaticano o vai al Quadraro”.
Furono due le motivazioni principali che portarono alla decisione di attuare la cosiddetta Unterhemen Walfisch (Operazione Balena in tedesco) nella zona. A seguito dei fatti di via Rasella i gerarchi di Berlino intendevano mettere a tacere, tramite evacuazione e deportazione, tutte quelle voci di dissenso presenti nei “rioni e sobborghi maggiormente infestati da comunisti”.
Al Quadraro l’occasione si presentò nel lunedì di Pasqua di quell’anno, 10 aprile 1944. In quelle ore avvenne un attentato che costò la vita a tre militari nazisti. A compiere l’atto, oltre alla romanzata figura del Gobbo del Quarticcolo (il cui vero nome era Peppino Albano), furono due giovani del Nido di Vespe chiamati Franco Basilotta e Giovanni Ricci.
La risposta fu spietata. Alla fine del rastrellamento, cominciato alle prime luci dell’alba del 17 aprile, erano state deportate centinaia di persone.
Le cifre più probabili parlano di circa 750 individui prelevati, ma il numero reale ancora non si conosce. Si sa invece che tutti i deportati erano maschi, proprio come alle Fosse Ardeatine, di età compresa tra i 16 e i 55 anni.
Molti di essi vennero destinati alle fabbriche di lavoro in Germania, Austria e Polonia. In pochi, una decina in tutto, fecero ritorno.
Tra i rastrellati, che appartenevano a varie categorie sociali, vi erano anche due figure legate all’ambito sportivo del tempo: Romolo De Sisti e Alfredo Welby.
Il primo, in verità, non ebbe mai a che fare direttamente con il pallone visto che era un guidatore di una linea di tram che collegava la via Tuscolana alla zona dei Castelli romani. Suo figlio Giancarlo, però, fu un famoso centrocampista della Roma e della Fiorentina tra gli anni ’60 e ‘70. Egli inoltre si laureò vice-campione del mondo con la Nazionale azzurra ai mondiali di Messico 1970.
Il secondo, invece, fu un calciatore della neonata AS Roma nella stagione 1929-1930 e, in seguito, vestì la maglia della Reggina. Egli, soprannominato Alfredino nonostante fosse alto quasi due metri, era inoltre il padre di Piergiorgio Welby: deceduto il 20 dicembre 2006 dopo un travagliato caso legato alla sua richiesta di eutanasia assistita.
Il rastrellamento del Quadraro ha avuto un forte impatto emotivo sulla zona e, nonostante ciò, l’animo militante ha ancora contraddistinto la borgata per molti decenni. Guarda caso il 12 marzo 1972, da un’idea di Roberto Rulli, proprio in quest’area facente parte della cosiddetta “borgatasfera”, così denominata da Valerio Mattioli nel libro Remoria, la città invertita, venne creato il gruppo dei Fedayn, uno dei pilastri della storia ultras della Curva Sud giallorossa.
Nello stesso libro Mattioli fa questa descrizione degli stessi Fedayn giallorossi: “Per testimoniare il mutamento politico che la borgatasfera conobbe in quegli anni, non c’è posto migliore della Curva Sud. Tempio dei tifosi della Roma, culla della moderna cultura ultrà e ritrovo per eccellenza dell’aristocrazia coatta, ancora ad inizi anni Ottanta la Curva Sud era un ritrovo sommariamente ‘di sinistra’, con gruppi come i Fedayn che, nati nella borgata del Quadraro e incappucciati come gli autonomi da cui avevano preso finanche il gesto della P38, piantarono i semi di una mitologia dal fascino immortale. Il loro inno era ricavato su una melodia di un vecchio canto socialista: “ Quando muore un prete/suonano le campane/piangono le puttane/e i loro protettori/Ma quando muoio io/non voglio gesù cristi/ma solo gagliardetti/dei Fedayn teppisti”.
Questo coro, prosegue Mattioli, “soggiogò ogni singolo giovane borgataro fuori e dentro il GRA. Per i pischelli, i Fedayn diventarono eroi popolari allo stesso modo degli Agostino di Bartolomei e dei Roberto Pruzzo che nel 1983 portarono la Roma a vincere il suo secondo scudetto, uno dei pochi momenti di gioia che la depressa borgatasfera del riflusso conobbe in quegli anni”.
E buon 25 Aprile a tutte e tutti!
Roberto Consiglio