Il 30 maggio è una data che, per i tifosi della Roma, evoca due tremende ricorrenze. In questo giorno del 1984 la squadra giallorossa, guidata dal barone Liedholm e con in campo alcuni personaggi come Falcao, Di Bartolomei, Ancelotti e Pruzzo, perdeva la sua unica finale della Coppa Campioni.
Il destino fu ancora più beffardo visto che la partita si giocò allo stadio Olimpico di Roma e tutta la parte della Città Eterna giallorossa si era mobilitata per quell’evento. Il match si concluse ai rigori con la vittoria, per 4-2, degli inglesi del Liverpool guidati da Joe Fagan.
10 anni più tardi quella maledetta notte, il 30 maggio 1994, avvenne un altro evento che sconvolse la vita di molti supporter capitolini. Il capitano di quella squadra pazzesca, Agostino Di Bartolomei, si tolse la vita a 39 anni sparandosi un colpo al petto con la sua pistola Smith & Wesson 38 Special.
Nato all’ombra del Cupolone l’8 aprile 1955, Di Bartolomei lasciò un biglietto abbastanza eloquente in cui spiegava il motivo di quel gesto. Il testo sulla carta diceva “mi sento chiuso in un buco”. Forte fu la commozione che generò quella perdita nel mondo del pallone a livello nazionale.
Il centrocampista nativo di Roma era infatti conosciuto, oltre che per la sua bravura sul campo di gioco, per il suo stile anche da tifoserie e squadri ostili alla compagine capitolina. Molti dei tifosi giallorossi lo hanno preso come esempio sotto numerosi punti di vista.
Per questioni anagrafiche, ahimè, non ho mai avuto il piacere di veder giocare Ago. I cori cantati allo stadio nel corso degli anni e la mia vicinanza al mondo del tifo della Curva Sud mi hanno però permesso di sentire spesso parlare di questo personaggio.
Nel 2020, inoltre, è avvenuto un fatto particolare. Il mio amico Sandro Bonvissuto, fedele supporter giallorosso come me di qualche anno più grande, ha scritto un libro per Einaudi dedicato a Di Bartolomei.
Il titolo di questa opera letteraria è molto suggestivo: La gioia fa parecchio rumore. Pochi giorni fa, in occasione del trentesimo anniversario della scomparsa del centrocampista, ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con l’autore del libro.
Anche se nelle pagine viene descritto il rapporto tra un giovane romanista e l’attaccante brasiliano Paulo Roberto Falcao, altra figura storica degli anni d’oro della presidenza targata Dino Viola, Sandro fa notare come l’animo pacato del capitano Di Bartolomei “percorre il libro, colorandolo di un romanismo orgoglioso e romantico. fino all’esultanza in ginocchio di Roma Avellino il primo maggio 1983, abbracciato a un giovane Carlo Ancelotti, lì tutti capimmo che era successo qualcosa che prima non potevamo nemmeno pensare”.
Quando gli chiedo chi era per lui Agostino, subito mi fa una precisazione: “Non chi era, ma chi è”. Dopo questo incipit aggiunge che nonostante la Roma abbia avuto molti capitani da quando ha iniziato a seguirla “l’uomo che ha incarnato la figura di capitano diventando l’archetipo, l’ideale di questo ruolo, è stato lui. Agostino è il mio capitano, per me, e per molti come me e della mia generazione”.
Di Bartolomei ha avuto una caratteristica fondamentale, da sempre molto cara ai tifosi che riempiono lo stadio Olimpico nelle ultime stagioni. Ha rappresentato appieno il concetto del romanismo, un po’ come ha fatto con i suoi limiti Josè Mourinho che difatti ha fatto registrare continui e ripetuti sold-out nelle partite casalinghe.
Un concetto quello del romanismo che, secondo Sandro, esisteva già prima dell’arrivo del centrocampista. Egli però ha avuto il merito di aver “istituito un certo modo di essere romanisti, lo ha fondato, lo ha creato dal nulla in quegli anni straordinari dell’era Dino Viola. Agostino ci ha insegnato un certo modo di essere della Roma. Per le nostre famiglie egli era un esempio, un figlio di una Roma popolare arrivato in alto, uno di noi che ce l’aveva fatta. I genitori ci dicevano che dovevamo essere come lui, parlare e pensare come lui. Fu un simbolo di riscatto per tutti noi”.
Insomma un vero e proprio senso di ribellione e di rivalsa che, negli anni di piombo, delle bombe fasciste e del terrorismo non era certo poco.
Dopo di lui, e in questo caso posso portare la mia testimonianza diretta, sono state solamente due le figura che hanno espresso quel concetto di romanismo sul campo durante le partite della Roma: Francesco Totti e Daniele De Rossi. Il primo, secondo l’autore del libro, “rappresenta il giocatore più forte nella storia di questa squadra”; il secondo, invece, viene descritto come “temperamento romanista ai massimi livelli, pensiero da capitano vero”.
Queste due figure, proprio come Ago, conclude Sandro, ci hanno fatto capire che “siamo l’unica squadra al mondo che può vantare capitani romani e romanisti. Qui non si tratta di essere capitani di una squadra di calcio, qui si tratta di essere capitani della Roma, che è tutta un’altra cosa”.
Roberto Consiglio
(Vorrei ringraziare Sandro Bonvissuto per la disponibilità e la cortesia dimostrata per la stesura di questo articolo).