Tutto è cominciato con la cerimonia di apertura. Con la follia e le accuse di blasfemia. Poi è stato il turno dei messaggi subliminali sui costumi delle nuotatrici che si sono rivelati fotomontaggi. Ora l’esplosione della “questione gender”, che altro non è che delirio trans-omofobico di proporzioni gigantesche. Una grande confusione sotto il cielo che si dimostra perfetto terreno di coltura per la più becera propaganda.
Ad alzare i toni della polemica, a fare rumore, account social di politici e giornalisti di area conservatrice e di estrema destra, soprattutto statunitensi, che sembrano scaldare i motori in una prova generale per l’assalto trumpiano alla Casa Bianca. Poi la solita tempesta perfetta: bufale che circolano per giorni sottotraccia, fino a diffondersi, per poi gonfiarsi ed esplodere senza controllo. Un meccanismo studiato ad arte che si ripete da anni e che ben conosce chi si occupa di questione migratoria.
Per la prima volta però è l’Italia al centro della scena. Chi segue con attenzione il pugilato aveva già capito che stava accadendo qualcosa: da giorni su molti account di settore montava una campagna denigratoria contro Imane Khelif, pugile algerina, “accusata” di essere trans e nata uomo. Sulla questione neanche occorre spendere troppe parole: Imane è nata donna e ha a sempre combattuto in competizioni femminili. Il resto sono illazioni, con buona pace di chi dice il contrario.
Ma come diceva Goebbels – degno maestro di coloro che hanno diffuso questa fake news – una bugia detta mille volte diventa una verità e quindi quando ieri Khelif ha affrontato Angela Carini, una pugile di esperienza internazionale, la percezione diffusa era che si stesse consumando un’ingiustizia. Che un uomo stesse approfittando dei suoi vantaggi fisici a discapito di una donna.
Carini si è ritirata dopo neanche 45 secondi a causa di due forti colpi ricevuti. Un semplice ritiro che ha acquisito però un profondo significato politico, anche per il comportamento ambiguo della pugile italiana che ha non solo prestato il fianco alle polemiche ma ne è stata complice: non ha salutato l’avversaria, ha ripetuto più volte “non è giusto”. E ha mostrato chiaramente un’insofferenza verso Khelif.
In un’intervista post-incontro Carini ha cercato di chiarire che si era ritirata solo per i duri colpi e che per lei non c’era nessun problema, mentre Emanuele Renzini, commissario tecnico della nazionale, ha dichiarato in un’intervista a Fanpage.it che il comportamento post-match era dettato dal nervosismo, ribadendo la totale assenza di polemiche rispetto alla questione sollevata.
Renzini ha poi sottolineato che le pugili si erano già conosciute e avevano addirittura condiviso allenamenti presso il Centro federale di Assisi. Questione ignorata, ovviamente, dalla gran parte della stampa italiana, che ha fatto da grancassa ai deliri complottisti confermando il sospetto che questo incontro sia stato sfruttato per attaccare i diritti delle persone LGBTQ+ e per condurre una battaglia ideologica sulla pelle di un’atleta.
Non è un caso che sul versante politico da Meloni a La Russa, passando per Santanchè, Salvini fino ad arrivare a Elon Musk e J. K. Rawlings – ma tristemente anche tante e tanti pugili per rimanere nel “nostro” mondo sportivo – si sono indignati per l’accaduto e hanno usato questo incontro a fini politici.
Di sicuro Carini avrebbe potuto fare una dichiarazione più netta, almeno di empatia verso l’avversaria. Ha perso una grande occasione e anzi ringraziando il governo per il sostegno ricevuto ha di fatto portato acqua al loro “mulino”.
Un tempo le Olimpiadi erano semplicemente un palcoscenico e alcuni atleti decidevano di veicolare messaggi politici. Erano gesti, azioni – decisioni individuali – che avevano l’obiettivo di smuovere le coscienze e denunciare: razzismo, discriminazione, guerre. Nel Novecento in una società fortemente politicizzata insomma anche gli sportivi – che di quella società erano il prodotto – non potevano fingere che il loro mondo non fosse in fiamme e dovevano per forza dire qualcosa. Era necessario prendere parola, anche in un momento “prepolitico” come una gara olimpica.
Oggi invece sembra andare in scena l’esatto contrario: in una società fortemente depoliticizzata, le Olimpiadi diventano un terreno da riempire di significati. A farlo non sono gli atleti, ma gli attori tradizionali della politica – gruppi, partiti, organizzazioni, o semplici personalità politiche – che salgono metaforicamente sul podio distribuendo medaglie e incoronando con allori gli atleti che più si dimostrano funzionali e utili alle loro battaglie. I tempi di Tommie Smith e John Carlos sono ormai, tristemente, molto lontani.
Filippo Petrocelli