A poche ore dalla proclamazione del futuro o della futura presidente degli USA, con le elezioni americane che entrano nell’ultimo miglio, sembra utile riflettere su un aspetto peculiare della campagna elettorale di Trump: quello relativo al ruolo degli sport da combattimento. Una riflessione che su queste pagine proviamo a portare avantialmeno dal 2019.
Da sempre il candidato repubblicano considera le arti marziali e gli sport da ring con un’attenzione tutta particolare, questo ben prima dei suoi esordi in politica. Sul finire degli anni Ottanta il Trump “uomo d’affari” ospita nei suoi casinò diversi incontri di Mike Tyson, giocando un ruolo non secondario negli esordi di “Iron Mike”. Per “The Donald” insomma il ring è sempre stato business: ci si è arricchito e ha fatto arricchire diverse persone. Ultimamente però gli sport da combattimento sono diventati altro: un importante veicolo di propaganda, una delle colonne portanti dell’ideologia trumpiana.
Non è un segreto che UFC (Ultimate Fighting Championship), la più importante promotion di MMA mondiale, sia un terreno molto favorevole per il candidato repubblicano. Più volte Trump è stato ospite in eventi targati UFC, ricevendo endorsement e applausi a scena aperta (anche fischi e critiche, questo va ricordato, ma l’organizzazione e i suoi vertici sono sempre stati molto accoglienti).
Dana White, il patron di UFC, ha inoltre presenziato – per altro anche recentemente – a convention repubblicane esprimendo forte apprezzamento e sostegno verso Trump. Joe Rogan, uno degli storici commentatori e volti di UFC, ha pochi giorni fa intervistato Trump nel suo podcast che vanta milioni di spettatori, tirando la volata all’uomo del Make American Great Again e aiutando a puntellare il “mito”di Trump uomo anti-establishment ed eroe del popolo. Diversi atleti e campioni del mondo UFC hanno espresso in passato ammirazione e intenzioni di voto per Trump: da Colby Covington a Jorge Masvidal, passando per Sean Strickland e Kamaru Usman.
Oggi invece in prima fila ci sono due ex campioni del mondo come Justin Gaethje per ingraziarsi l’America bianca e protestante, e Henry Carlos Cejudo per strizzare l’occhio alla comunità ispanica. Ad attirare il voto arabo-americano – che molti osservatori individuano come centrale nella conquista della Casa Bianca – c’è invece Ali Ibrahim Abdelaziz, sconosciuto al grande pubblico, ma che è uno dei più importanti manager di MMA del mondo, molto attivo negli ultimi mesi, come rileva in diversi articoli e analisi Karim Zidan, una delle penne più raffinate fra chi si occupa dell’universo degli sport da combattimento.
Se Kamala Harris insomma riceve appoggio diffuso nel mondo di Hollywood con Roberto De Niro, Jennifer Lawrence, George Clooney, Barbara Streisand, Spike Lee, Jennifer Lopez e del mondo musicale con Beyoncé, Bruce Springsteen, Billie Eilish, Taylor Swift e Ariana Grande, Trump invece fa il pieno nell’ottagono di UFC.
Da una parte l’intrattenimento “colto” e “culturalizzato”– la musica e la settima arte – dall’altro lo sport, più nazionalpopolare e meno “elitario”, soprattutto quello da combattimento.
Questa polarizzazione dell’entertainment – un’industria che ha un peso economico enorme negli USA – ha un significato ancor più dirimente nel paese che ha fatto dell’intrattenimento un’ideologia, arrivando a raccontare forse meglio di qualunque analisi quell’evidente spaccatura sociale che gli USA vivono oggi: le grandi città vs la provincia, gli impresentabili vs le persone socialmente accettate. E tutto questo contribuisce a rafforzare quel “noi” e quel “loro”, quell’opposizione quasi antropologica fra popolo ed elite, che è parola d’ordine della “nuova destra” degli ultimi anni.
È anche grazie a questo meccanismo, a questa versione deformata, addomesticata e corrotta della “lotta di classe” sul terreno dell’entertainment che sta parte del successo trumpiano. È questo uno dei grimaldelli con cui un uomo d’affari multimiliardario – l’elite per eccellenza – riesce a presentarsi come un outsider, un underdog, un uomo del popolo. Perché, per esempio, anche lui guarda gli sport da combattimento, che molti snob democratici ritengono a torto una brutalità.
In questo gli echi del “presidente operaio”, dell’egemonia culturale del berlusconismo, dell’intrattenimento usato come arma nella lotta politica, sono fin troppo evidenti e dimostrano ancora una volta che, in fondo, anche se gli statunitensi sono i padroni del mondo, siamo sempre noi italiani a “scoprire” e “inventare” l’America.
Filippo Petrocelli