Nel profondo Sud, proprio all’altezza del tacco dello Stivale, c’è una delle primissime realtà che si è cimenta nell’avventura del calcio popolare, ma che al tempo stesso non esaurisce la propria forza propulsiva sul rettangolo verde per i canonici novanta minuti. Infatti, come abbiamo avuto modo di vedere in passato, attraverso progetti come “Calcio senza confini” con la No-Racism Cup, un rapporto viscerale col proprio territorio e una pratica concreta e continua dei principi di “autogestione”, “antirazzismo” e “collettività” che hanno ridato ossigeno e slancio a una visione della militanza politica, lo Spartak Lecce si è rivelato un modello a cui ispirarsi per avviare un percorso sportivo dal basso, capace di coinvolgere sempre più gente e di andare a fondo nelle contraddizioni del sistema calcio italiano.
Tuttavia, come sempre più spesso ci tocca constatare, negli ultimi periodi sembra che tutta l’esuberanza del club biancoverde, abbia incontrato qualche ostacolo di troppo a causa della pachidermica burocrazia del nostro Paese, con (probabilmente) lo zampino di qualcuno che vorrebbe il calcio a ogni livello al pari di un teatro e che di fatto ha impedito allo Spartak di giocare in alcuni impianti sportivi della provincia salentina gestiti da privati, consentendo a questi ultimi di fare il bello e il cattivo tempo, persino in un ambito com’è quello della UISP.
Questa situazione kafkiana ci ha fornito l’occasione di risentirci con la tribù biancoverde e fare quattro chiacchiere con l’allenatore, Mauro, con cui abbiamo affrontato diversi temi.
Ci siamo già occupati in altre occasioni dello Spartak Lecce, una delle realtà che ha contribuito a edificare il movimento del calcio popolare, volete un attimo aggiornarci rispetto all’ultimo anno e mezzo e all’inizio di questa nuova stagione?
Più che all’ultimo anno mi piacerebbe pensare agli ultimi cinque, che è il periodo in cui mi sono riavvicinato allo Spartak nel ruolo di allenatore dopo aver vissuto un decennio da giocatore. Da quando mi sono calato in questo nuovo ruolo ho cercato di trasmettere ai ragazzi alcune idee, che vanno comunque a braccetto con quelli che sono sempre stati i nostri valori. Una di queste è lo spirito del divertimento, nel senso che ho cercato, e continuo a farlo, a ricordare che il calcio è un gioco, e in quanto tale non si può andare in campo pensando solo a vincere. Ecco, l’idea della vittoria a tutti i costi e con qualsiasi mezzo è un qualcosa che non ci appartiene. Questo non è scontato, e in effetti all’inizio abbiamo trovato delle difficoltà perché per quanto puoi accettare l’idea del divertimento poi quando ti trovi di fronte degli avversari, l’adrenalina può in un certo senso annebbiarti la vista. E riallacciandomi a questo, altra idea è quella che una partita di calcio non può e non deve essere vissuta come una guerra; dire che di fronte abbiamo degli avversari non significa che di fronte abbiamo degli esseri da annientare. Credo che accettare queste idee in un campo di calcio possa essere una buona e solida base su cui costruire quelli che sono i nostri valori nella vita, dall’inclusione all’antirazzismo. E in questa prima parte di stagione posso ritenermi davvero contento del rapporto che abbiamo avuto con avversari e arbitri.
Tramite un vostro comunicato siamo venuti a conoscenza dell’incresciosa situazione che state vivendo dall’inizio di questa stagione, vi va di raccontarla ai nostri lettori e alle nostre lettrici?
Dunque, senza dilungarmi molto nel discorso, la questione è questa. Una struttura privata ha deciso di non ospitarci più sui loro campi perché, a loro modo, i nostri tifosi avrebbero arrecato dei danni e lasciato immondizia sugli spalti (nello specifico bottiglie di birra); inoltre, le torce e tutto ciò che viene usato per sostenere una qualsiasi squadra di calcio disturberebbero le altre attività sportive. Questo ha fatto partire una sorta di spirale per cui anche altre strutture hanno storto il naso quando avremmo dovuto giocare noi (pur facendoci comunque giocare). E l’apice è stato raggiunto quando una struttura della provincia, dove non abbiamo mai giocato e dove saremmo stati squadra ospite, ha chiesto alla società di casa di firmare una liberatoria in caso fossero stati riscontrati danni a cose o persone. Ovviamente, questo non è avvenuto. Ora, la questione della privatizzazione può assumere tante sfaccettature, dove quelle che ben conosciamo sono quelle ideologiche, quelle per cui combattiamo. Il mio pensiero, nel caso specifico, non è stato quello di doverci opporre alla privatizzazione in quanto tale perché rischieremmo di affrontare una battaglia troppo grande, che il più delle volte finisce per risolversi in un nulla di fatto. Credo, invece, che in quanto piccolo gruppo potremmo e dovremmo affrontare un altro discorso, che in una città piccola come Lecce può avere maggiore riscontro. Ossia, avviare una riflessione sullo stato, e sul degrado, in cui versano alcune strutture pubbliche. Perché il problema reale, almeno qui in città e nella nostra provincia, è che le strutture pubbliche esistono, ma dato che non creano profitto sono state abbandonate. E questo ha permesso ai privati di avanzare con facilità. Capitalismo e privatizzazione hanno sempre camminato insieme, il primo come fenomeno invisibile, il secondo come manifestazione evidente che, però, non abbiamo affrontato in tempo perché… ci siamo dimenticati di quando si giocava sulla terra battuta, di come era bello, del sogno di giocare di fronte ai nostri tifosi.
Quanto è cambiato il calcio dal basso in questi anni e quali pensate possano essere gli sviluppi futuri?
Non è facile rispondere a questa domanda perché tutto è rapportabile a ogni singola realtà. La mia idea è che sia un po’ cambiato il concetto di “calcio dal basso” se lo intendiamo in simbiosi con l’idea di calcio popolare. E dico questo partendo, ovviamente, da quella che è stata ed è l’esperienza dello Spartak. Quando più di dieci anni fa è partito questo progetto si parlava propriamente di azionariato popolare, tant’è che avevamo tessere associative in cui ogni quota corrispondeva a un singolo membro di una presidenza allargata. Certamente, questo corrispondeva a un progetto di costruzione dal basso. Col tempo abbiamo un po’ abbandonato questa strada dell’azionariato mantenendo comunque l’idea di autogestione, per cui ogni forma di finanziamento si basava sulla nostra stessa capacità di finanziarci. E questo è durato fino a quando abbiamo giocato in FIGC. In realtà, è col passaggio nella UISP che si è iniziato a parlare più propriamente di calcio popolare perché ci siamo rapportati in maniera più stretta col territorio. Dagli ultimi due anni, e quest’anno in particolare, abbiamo sentito il bisogno, impellente, di fare più politica. Ma non esclusivamente in termini ideologici quanto piuttosto in termini di vicinanza al territorio, partendo dal quartiere per allargarci alla città. E in questo senso l’idea di “costruzione dal basso” rappresenta le fondamenta dello Spartak. Chiaramente, questo modo di fare può riguardare tante altre realtà, vicine e lontane da noi. Ma rispetto a dieci anni fa, quando si parlava di azionariato popolare, che in quanto tale era qualcosa di nuovo, anche e soprattutto a livello mediatico, il calcio popolare è invece qualcosa che, forse, esisteva già da tempo. E quello che è cambiato è appunto la connotazione politica e sociale che gli si è voluta dare, il fatto di costruirci intorno un progetto in cui il calcio è quasi soltanto un espediente per attirare gente.
Qual è la vostra idea sulle leghe alternative alla FIGC come la UISP, ritenete irrealistica l’ipotesi di un ritorno nella FIGC?
Per rispondere a questa domanda dovremmo sederci al tavolo di un bar e ordinare più di qualche birra! Come Spartak, abbiamo abbandonato la FIGC perché la ritenevamo ostile a qualsiasi progetto di aggregazione, oltre che per una questione economica insostenibile aggravata dalla totale mancanza di organizzazione. Non è stata una resa, ma soltanto un guardarsi intorno per cercare di realizzare un progetto più concreto. E pensavamo che la UISP potesse essere un terreno fecondo. Invece, col trascorrere degli anni, fino a quest’anno, ci siamo accorti (sulla nostra pelle) che c’è ben poco di amatoriale, ben poco di “sport per tutti”. Che nessuno gioca per puro divertimento, ma che l’obiettivo è il vincere a ogni costo e con ogni mezzo, giustificando atteggiamenti antisportivi nei confronti degli avversari e degli arbitri. E, soprattutto, che la federazione provinciale avalla questi atteggiamenti perché mostra una totale indifferenza e si limita semplicemente a “richiamare all’ordine”, magari indicendo saltuariamente degli incontri durante i quali non c’è mai un dibattito ma solo un richiamo all’ordine, appunto. In sostanza, un nulla di fatto. E ci sarebbe tanto altro da aggiungere se aprissimo la piaga degli arbitri totalmente abbandonati a se stessi, in campo e fuori.
Per quanto riguarda l’eventuale ritorno in FIGC… diciamo che le risposte interessanti potrebbero essere o un no categorico oppure un “sì, ci stiamo lavorando”. Quindi, mettiamola così: tanti anni fa non avremmo mai pensato di lasciare la FIGC. E non avremmo mai pensato di andare nella UISP. Ma abbiamo uno spirito libertario che ci porta sempre ad aprire porte, mai a chiuderle!
Com’è la situazione degli impianti sportivi e più in generale dell’accessibilità allo sport di base nel vostro territorio?
La condizione degli impianti sportivi, pubblici, nel nostro territorio è disastrosa. Di conseguenza, disastrosa è la situazione dell’accessibilità agli sport. Testimone ne è, appunto, la questione che ci ha riguardati da vicino di cui prima. Per quelle che sono le mie conoscenze, su Lecce abbiamo un impianto pubblico, l’antistadio, dotato di due campi da calcio in terra battuta dei quali uno solo agibile, e in quest’ultimo (che è quello in cui giochiamo, ma non in cui ci alleniamo) lo stato degli spogliatoi è penoso: spazi ridotti, attrezzature al limite della precarietà, docce e caldaie mal funzionanti, totale assenza di impianti di riscaldamento, poca pulizia. Aggiungo che, indipendentemente dalle varie amministrazioni comunali che si sono alternate nei decenni, il problema di questo impianto sportivo non è mai stato preso in considerazione, se non in maniera latente con le varie promesse nei periodi elettorali (che non c’è bisogno che vi dica la fine che hanno fatto). Ora, senza voler dire cose sbagliate, credo che anche nel resto della provincia la situazione sia simile, con la differenza che in molti casi si è avallata la scelta dell’affidamento delle strutture pubbliche a una gestione esterna, che ovviamente si è trasformata in una gestione privata dove al centro dell’attenzione non c’è il bisogno del cittadino, come dovrebbe essere nel settore pubblico, ma il profitto. Tuttavia, la richiesta resta sempre alta, ragion per cui hanno iniziato a proliferare gli impianti privati dove di natura regna il motto “questa è casa mia e si fa come dico io, senza se e senza ma”. Ecco, il problema principale, secondo me, non è soltanto il sopravanzare del privato guidato dalla logica capitalistica, ma il totale abbandono di quel piccolo spazio pubblico che ogni amministrazione comunale dovrebbe garantire. Non va dimenticato che quello allo sport è un diritto vero e proprio, che in quanto tale è stato frutto di lotte. Ed è proprio qui che ci inseriamo noi e quelli come noi che, con iniziative dal basso, cercano di riappropriarsi di spazi pubblici. Magari individuando un luogo in stato di abbandono e cercando dei bandi pubblici che possano permetterci di acquisire quelle risorse necessarie per avviare un’attività di recupero e di messa a disposizione della collettività. Noi partiamo dal quartiere in cui ci troviamo, che è un quartiere anch’esso abbandonato al degrado, cercando col tempo di allargarci alla città. E tornando alle domande di prima, questo è un aspetto del calcio popolare, di ciò che lo rende diverso dall’azionariato popolare.
Quanto è importante per una realtà come la vostra la scuola calcio maschile femminile?
Su questa domanda rispondo in modo generico e in parte scontato: la scuola calcio popolare, maschile e femminile, è fondamentale ovunque. Innanzitutto per abbattere quei retaggi culturali che abbinano l’idea del calcio al testosterone. Idea che a livello mediatico si cerca solo di nascondere facendo emergere il calcio femminile in tv, ma che è chiaramente un aspetto consumistico e non una vera e propria apertura. Se consideriamo il calcio per quello che è, ossia un gioco, non dovrebbero esserci differenze tra uomo e donna perché in tutti gli aspetti della vita donne e uomini giocano insieme. E il mio è un azzardo, ma se ci sforzassimo di considerarlo realmente come un gioco sarebbe più facile superare l’altra giustificazione che spesso si addice, ossia che la diversificazione è dettata da una questione di fisicità tra maschio e femmina. Chiaro che il mio pensiero non troverà mai accettazione per tanti ovvi motivi, ma quanto meno nelle fasce di età più basse posso sperare che questa diversità venga superata un po’ ovunque. Ho risposto in maniera generica perché, in realtà, lo Spartak Lecce e la scuola calcio popolare sono due progetti affini e collegati, che si sostengono e si rivendicano insieme, ma che non sono la stessa cosa. Almeno per ora.
Siete riusciti a sviluppare una rete di collaborazioni con altre realtà?
A differenza di qualche anno fa, quando militavamo in FIGC e avevamo molti contatti con altre realtà simili, il passaggio nella UISP ha reso un po’ più difficile mantenere in vita questo discorso, anche per nostre colpe determinate in parte dalla delusione immediata dettata dall’abbandono della FIGC appunto. Ma visto che da quest’anno abbiamo deciso di risollevarci a livello sociale e stiamo coinvolgendo molte più risorse umane, l’aspetto che in gergo chiameremmo “gemellaggio” è uno dei punti che abbiamo messo tra i nostri obiettivi. Come dire, i vecchi contatti ci sono ancora, basta riallacciarli.
A proposito di “tifosi che fanno casino”, ci sono gruppi organizzati che seguono lo Spartak? Qual è il vostro rapporto invece con gli ultrà del Lecce? E con le altre tifoserie della zona?
Per quello che riguarda i nostri tifosi, sì, abbiamo un gruppo organizzato e che si sta riorganizzando. E se un decennio fa facevamo un po’ invidia nel nostro territorio perché non si era mai visto che una squadra di terza categoria avesse dei tifosi al seguito, tanti tifosi, averceli addirittura nella UISP che è una federazione amatoriale credo che faccia ancora più invidia! Ho fatto parte degli ultrà Lecce per molti anni e, anche se adesso non frequento più la curva ne condivido e conservo gli ideali. Per questo, dico semplicemente che tra Spartak e ultrà Lecce c’è molta distanza, ma non con un’accezione negativa, sia chiaro. Il fatto è che si tratta di due fenomeni diversi, seppur aventi in con comune l’ideale della teppa e della strada. Ma lo Spartak persegue esplicitamente ideali politici mentre la curva del Lecce è ormai da molti anni dichiaratamente apolitica, aderendo (come molte altre curve italiane) al motto “fuori la politica degli stadi”. Detto questo, moltissimi componenti della squadra e dei tifosi frequentano la curva e sono parte degli ultrà, ma non si può individuare un percorso comune, soltanto elementi come la difesa del territorio e di determinati ideali. Per quanto riguarda, infine, il rapporto con altre tifoserie, purtroppo questo non c’è perché non esistono altre tifoserie. Abbiamo dei rapporti di amicizia con alcuni gruppetti che sostengono la loro squadra a livello provinciale, ma appunto sono semplicemente amicizie che esistevano già prima del campo di calcio.
Dopo ormai undici anni, pensate di essere ancora vincolati a qualche zona in particolare o vi sentite a tutti gli effetti la seconda squadra di Lecce?
Ormai da molti anni, la questione – un po’ folkloristica – del sentirsi la seconda squadra della città è superata. Intendo dire che fino a un ventennio addietro esistevano due tre squadre sul territorio che si ponevano in competizione fra loro, e il cui andamento in campionato risolveva il dilemma, puramente goliardico, di chi fosse la seconda squadra di Lecce. Col tempo, quelle realtà sono scomparse e ne sono nate delle altre, tra cui lo Spartak, che però non hanno mai preso in considerazione questo tipo di rivalità. Il passaggio nella UISP, poi, ha determinato l’impossibilità anche solo di scherzare su questo aspetto. Probabilmente, l’unico vincolo che potremmo individuare è quello di essere l’unica realtà sportiva antifascista e portatrice di determinati pensieri come il fair-play e l’autogestione. In questo possiamo vantarci di essere la prima realtà, a Lecce e in provincia.
Per quanto riguarda proprio il capoluogo salentino, la squadra è una sorta di porto franco per compagni e compagne delle varie realtà o nel tempo si è configurato come un soggetto politico-antagonista sui generis?
Dunque, concludo questo intervento illustrando ciò che sta avvenendo quest’anno, e che potrebbe essere una risposta all’ultima domanda. In tutti questi anni di Spartak, partendo dalla fondazione, si è sempre cercato di dare alla squadra un profilo sociale e ideologico che, di fatto, è stato ciò che ci ha contraddistinto. Tuttavia, è mancato quell’approccio più concreto che ci avrebbe permesso di radicarci anche come realtà politica vera e propria. Da quest’anno stiamo cercando di migliorare su questo aspetto allacciando, e riallacciando, rapporti con altre associazioni vicine sul territorio. E soprattutto aprendoci di più al pubblico, ossia anche al singolo individuo che vede in noi un progetto che va oltre un semplice campionato di calcio. In quest’ottica, stiamo provando ad assumere la conformazione di un collettivo organizzando incontri settimanali in cui si affrontano non solo questioni che riguardano la squadra di calcio, ma anche situazioni di vita determinate dalla quotidianità.
Per concludere, lo Spartak sta provando a essere quello che non è stato mai, ossia una realtà antagonista nel vero senso della parola. Una presenza costante nella vita pubblica della città, aperta a tutti coloro che ne condividano idee e pensieri. Non solo una semplice squadra di calcio, bensì una realtà dove il gioco del calcio è solo un espediente per realizzare un progetto di inclusione, antifascista e antirazzista.
Intervista a cura di Giuseppe Ranieri