Stordito dal caldo, vago tra gli scaffali reparto-casa di un supermercato sulla Portuense. In realtà non devo comprare niente.
Non sopporto l’aria condizionata, ma l’avventura a piedi sulla salita di Affogalasino mista al caldo mi ha tolto le forze. Cerco nel fottio di BTU erogati dalle macchine del freddo il meritato refrigerio.
Avevo superato bagnoschiuma e scopettoni, poi giù verso gli alimentari vedo un parapiglia. Una ragazza con fare arrogante spintona un anziano.
Lui si divincola. Con una testata colpisce la ragazza che con voce tra l’incredulo e il terrorizzato urla: «Oddio. Flavio Sandro aiutooooooo! Stanno a rubbà aiutooooo!».
Poi si guarda la divisa del supermarket sporca di sangue che gli cola con un rigagnolo dal naso.
Forse è rotto.
Si mette una mano sotto le narici poi la guarda. Sì, è proprio sangue, e come se qualcuno l’avesse spenta… sviene.
L’anziano si butta sotto uno scaffale.
Non per nascondersi, sarebbe da stupidi.
Mi avvicino, cerco di capire. I tanto agognati Flavio e Sandro arrivano. Lui emerge da sotto lo scaffale e facendola scivolare sul pavimento liscio e lucido mi tira una cosa rossa striata di bianco che sembra una spuntatura di maiale: «Prennila, te prego. Senza ‘n posso vive».
Metto in tasca il pezzo di carne che carne non è. È viscida e fredda. È una dentiera.
«In guardia buffoni», ringhia lo sdentato.
«So ancora er mejo gancio de Trastevere!».
Effettivamente prima il tanto agognato Flavio poi il tanto agognato Sandro cadono giù, colpiti da due ganci incredibili: Knock out pulito, senza discussioni.
Il bello è che li colpisce una sola volta. Prima destro poi sinistro. Una serie favolosa.
Rimango senza parole stringendo quella cosa viscida che ho in tasca. Nel frattempo arriva un guardione della sicurezza che placca il pugile in stile rugbistico. Il tipo in divisa è un bell’armadietto, ma stranamente non si comporta male. Anzi, allontana il vecchio cercando di tappargli la bocca con aria preoccupata mentre lui urla intrepido: «So Carletto Gancio d’Oro! Ho messo a terra Monzon io. Che cazzo vonno ‘sti du’ nanetti?».
Si riferisce ai tanto agognati Flavio e Sandro, che senza alcuna vergogna rimangono a terra, forse per paura di un'altra ripresa.
Hanno chiamato la Polizia.
Scende dalla volante un graduato. Entra con tutta calma nel supermarket. L’altro aspetta fuori con il motore acceso.
«Chi fa l’antitaccheggio qui?», domanda agli inservienti.
Gli risponde il tanto agognato Flavio, che nel frattempo s’è alzato da terra mentre l’altro è ancora seduto con le spalle poggiate allo scaffale.
«Qui non c’è nessuno che fa questa cosa. Siamo noi che ci lavoriamo, nei limiti del possibile cerchiamo di farlo. Poi c’è la vigilanza privata che interviene solo in casi come questo», e lo dice smascellando come un sedicenne al primo rave.
Il graduato incede: «Va bene, allora chiamatemi la vigilanza privata. Dov’è il ladro?»
Dopo un po’ di trambusto arriva il guardione. Ha la divisa strappata e qualche escoriazione sul viso, ma è a mani vuote: il ladro non c’è.
Il poliziotto perde le staffe: «Lei mi deve spiegare come ha fatto a farselo sfuggire… Gli inservienti dicono che era un anziano e lei mi sembra ben piazzato e presuppongo addestrato…».
«Ecco…», gli risponde il guardione.
«Il signore anziano ha dimostrato una certa forza. Ha steso quei due in pochi secondi. Io sono riuscito a fermarlo, ma appena ho mollato la presa mi ha colpito forte e sono caduto. Poi si è dileguato in strada e l’ho perso».
«Insomma, tra le altre cose questo vecchio correva pure piuttosto velocemente…», ribatte il poliziotto con un insospettabile tono ironico.
Il graduato non sembra troppo convinto della spiegazione.
Intanto io mi defilo, sempre con la cosa viscida in tasca. Non voglio essere coinvolto. Ma scopro che il proprietario della cosa viscida aveva rubato un fissativo per dentiere e che la tipa del supermarket, avvertita da un cliente, lo aveva seguito e tentato di perquisire. Neanche fosse lei una guardia. Neanche fosse suo il supermercato.
Comunque inizio a guadagnare l’uscita. Il guardione supera il capannello di gente che si è formato al reparto alimentari. Si avvicina a me: «Carletto dice che tu hai la sua dentiera, resta calmo, l’ho fatto scappare io. Due ore e stacco. Per cortesia fatti trovare al bar all’angolo e non ti preoccupare, a tutto c’è una spiegazione».
Annuisco come a dire sì. Non faccio domande. Le due ore le passo a gironzolare per i Colli Portuensi con tutta la fighetteria di ordinanza che guarda le vetrine dei negozi ma non compra niente.
Penso che per assurdo muove più l’economia Gancio d’Oro rubando che questi commercianti dai prezzi improponibili. Un paio di Jeans non può costare duecento euro.
Assisto a una discussione assurda per un parcheggio. Due ambulanti litigano per un pezzo di marciapiede. Non si capisce in che lingua.
Comunque la risolvono dividendo a metà lo spazio. Un piccolo esempio di socialismo nel quotidiano.
L’idea mi frulla in mente insieme a uno slancio di pensieri positivi. Raggiungo il bar all’angolo che mi era stato indicato. Mi siedo al tavolo e ordino un’acqua tonica aspettando il guardione. La cosa viscida oramai abita le mie tasche, vive di vita propria. Se mi muovo, si muove anche lei, emettendo un suono simile a quello delle maracas. Sembra di stare in un disco di Harry Belafonte.
Il guardione arriva e si presenta tendendomi la mano: «Ciao mi chiamo Andrea e sono un amico di Carletto Gancio d’Oro».
Mi presento con la mano viscida di dentiera. Questa volta chiedendo spiegazioni.
«Lui mi ha aiutato molto quando da Matera sono arrivato a Roma. Qui mi sono laureato in Informatica pagandomi da vivere con il lavoro che mi dava Carletto in palestra. È stato un grande pugile. Lo hanno estromesso dalle Olimpiadi di Città del Messico. Sarebbe stato convocato nella rappresentativa nazionale, ma pochi mesi prima della partenza, durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam, ruppe un braccio a un dirigente di Polizia. Fu arrestato e picchiato in carcere dai secondini, che lo ridussero in fin di vita. Uscì con la condizionale dopo quasi due anni. In tempo per mettere a tappeto Carlos Monzon, “la Bestia”».
«Ma come? Davvero ha messo per terra Monzon?», rispondo io.
«Allora anche a te piace il pugilato?», mi domanda Andrea.
Rispondo che sì, mi piace. Da ragazzino l’ho anche praticato per poi passare al nuoto, che è il mio sport preferito. Soprattutto perché i pugni fanno male.
Dico anche che non lo seguo più, il pugilato. Non ci sono boxeur in grado di entusiasmarmi, tranne il nostro Gancio d’Oro, che in quel ring immaginario del supermarket è stato un grande.
«Anche io non ci credevo alla storia di Monzon», incalza Andrea. «Poi lavorando in palestra ho potuto capire che era vera».
Io lo guardo perplesso e Andrea continua a raccontare: «I fatti stanno così: nel 1970 Nino Benvenuti decide di avere come sfidante per il titolo mondiale dei pesi medi il semisconosciuto Carlos Monzon, qui a Roma. Una scelta che visto come sono andate poi le cose non si rivelò appropriata, questo è sicuro. Comunque l’argentino con il destro di ferro aveva bisogno di sparring partners per prepararsi all’incontro. La paga non era male e tramite le conoscenze che aveva nell’ambiente Carletto riuscì a salire su quel ring per incrociare i guantoni con il futuro campione del mondo. Ti premetto che gli altri sparrings non erano andati benissimo. Monzon si lamentava. Diceva che erano troppo scarsi anche solo per fare una ripresa con lui…».
In un attimo mi sento a bordo del quadrato. Sembra di vederli Gancio d’Oro e Monzon che danzano sulle punte. Scrutandosi. Cercando di capire l’uno le debolezze dell’altro.
Dopo aver ordinato un caffè freddo Andrea continua il suo racconto: «Gli organizzatori spiegarono a Carletto che “El Macho” si era lamentato degli sparrings. Chiedeva gente con grinta. Lui al titolo ci puntava e non si poteva allenare seriamente con gente che al primo montante cadeva giù. Salì sul ring il primo giorno per cinque riprese da tre minuti. Senza mai cadere a terra. Non era in forma, ma la tecnica e la voglia di dimostrare a se stesso di essere ancora un pugile bastavano a tenerlo in piedi».
Andrea si accende una sigaretta e me ne offre una, che fumo volentieri. Continua a raccontare: «Il secondo giorno gli organizzatori gli dicono che l’argentino vuole solo lui come sparring».
Il tavolo dove eravamo seduti perde l’ombra che lo aveva reso così ambito. Ci alziamo. Andrea insiste per pagare il conto. Lo lascio fare.
A piedi raggiungiamo quasi Villa Pamphili. All’altezza della Circonvallazione Gianicolense troviamo una panchina all’ombra e ci sediamo per un’altra sigaretta. Nel tragitto Andrea mi racconta la sua vita in pillole. La laurea come studente fuori corso, la speranza di fare l’ingegnere informatico, gli stages non pagati per le grandi aziende, la promessa di un assunzione mai mantenuta e, alla fine, il ripiego su quel lavoro: per non tornare a Matera, tra i sassi.
«Sono gli unici che mi hanno proposto un contratto vero. Insomma, con le ferie pagate e tutto il resto. È un lavoro di merda, lo so, ma a fine mese i soldi ci sono. Non è una gran cifra. Però mi permette di vivere dignitosamente.
«E poi devo dire che da questo punto di vista Roma mi ha deluso. Pensavo che la laurea e la buona volontà fossero sufficienti, invece no».
Provo a rincuoralo, cercando di strappare un sorriso alla sua ingenuità. Dico che la vita qui è sempre più difficile, anche per noi che ci siamo nati.
La cosa viscida che ho in tasca continua a tintinnare quando mi muovo. Sempre su ritmi caraibici, forse influenzata dal caldo che solo in una lontana vacanza in Messico avevo sentito così asfissiante.
«Tieni questa è di Gancio d’oro», gli passo la dentiera che intanto ha smesso di suonare.
«No, aspetta», mi risponde Andrea.
«Non siamo molto lontani da casa sua. Che poi è attaccata alla mia.
«Credo sarebbe felice di conoscerti. Sa essere riconoscente con chi si comporta bene con lui».
Gli rispondo stizzito che non sono in cerca di ricompense. Volevo solo liberarmi di quella cosa viscida e a questo punto anche sapere di Monzon che andava a tappeto sotto i colpi di Gancio d’Oro.
«Dai vieni con me. Ci vuole poco ad arrivare, così la storia la racconta lui. Di persona».
Andrea insiste e io, dopo qualche esitazione, mi faccio convincere.
Arriviamo che oramai sta facendo sera. Il caldo sembra non placarsi nonostante una leggera brezza che mette buon umore.
Andrea bussa a una porta. Dentro si sente rispondere: «Chi sei? Nun ciavemo bisogno de gnente. Ciavemo tutto, puro ‘e malattie!».
E giù una risata d’altri tempi, mista di catarro e sigarette senza filtro.
«Sono Andrea, apri, ti ho riportato la dentiera».
Si sente il tamburo della serratura che gira.
Tlic -tlac e la porta è aperta.
«Mò chi è stò cazzabbubbolo?».
Gancio d’Oro brucia con uno sguardo Andrea, considerandomi un intruso.
«Mettiti gli occhiali, così lo riconosci», sospira Andrea con un sorriso divertito.
«Aoh, io nun lo riconosco manco co’ l’occhiali».
Mi tolgo il cappellino dei Knicks che al supermercato non portavo. Lui da sfogo alla poltiglia senza filtro aggrappata alle corde vocali con una risata che risuona per tutta la stanza.
«Bellooo! M’hai riportato i denti! Così posso magnà ‘m po’ de carne, che senza ‘nce riesco».
Mi presento con tutti i convenevoli del caso dopo avergli restituito la cosa viscida.
«Ma che te sei messo paura ar Supermercato?».
Parla ad alta voce Gancio d’Oro riposizionando l’attrezzo vitale senza neanche lavarlo.
«È che non riuscivo a capire la situazione. È stato tutto così veloce…», rispondo io.
«Gancio d’Oro è ancora un fulmine, anche se oramai perde colpi».
Una voce femminile irrompe nella stanza, che improvvisamente diventa colorata.
«Giovanna sei arivata? Nun sei entrata dalla porta vero?»
«No sor Carlè. So’ entrata dar giardino. Ha lasciato aperto il cancelletto come al solito. Poi se lamenta se je rubbano i limoni».
Gancio d’Oro sbotta: «Ehe! Se ce li pijo però me diverto!», fregandosi le mani, che ora guardo meglio e che sembrano mastodontiche.
«Piacere, Giovanna. Abito nell’altro appartamento, ma quando torno dal lavoro er sor Carlo è tappa fissa».
Si presenta e poi si scioglie i capelli di un biondo mesciato abbastanza acido e delicato da sembrare castano. Il vestito a fiori gli dà un’aria da “Happy Days”. Gli occhi scuri ma non troppo sovrastano il sorriso più bello del mondo. Non c’è dubbio, mi piace.
Come al solito cerco di capire perché in pochi secondi si apre la prospettiva di un mondo diverso e migliore, fino a quel momento mai immaginato. Almeno per me che resto a guardarla mentre saluta Andrea.
Non è il suo ragazzo, non l’ha baciato, penso tra me e me scoprendomi prematuramente geloso.
Cerco di spiegare l’inspiegabile. Scarto le cose più banali. Edipo insinua maligno la mia predilezione per la terza spinta e i fianchi generosi.
La motivazione per questo fermento però la trovo lì. Nascosta nel suo modo di sistemare i capelli dietro le orecchie, che sembrano disegnate. Le dita eseguono un movimento dolce e sensuale, simile a quello delle ballerine indiane.
Dopo pochi minuti Giovanna saluta. Questa volta con un bacio sulla guancia, promettendo a Gancio d’Oro di passare il giorno successivo.
Quando arriva il mio turno si lega di nuovo i capelli e la trazione esercitata le risalta gli zigomi: «Te lo ha raccontato di Monzon?»
Istintivamente mi viene da rispondere «Monzon chi?», invischiato come sono nei pensieri che vedono me e lei come attori principali: viaggi, scopate selvagge, litigi per poi fare l’amore di nuovo, una casa, un auto, figli bellissimi…
Cerco la forza per non fare una figuraccia, per uscire dal sogno: «No, ancora non mi è stato raccontato», rispondo con la più inutile delle voci.
«Allora rimango ancora qualche minuto! Adoro questa storia, soprattutto raccontata dal sor Carlo».
Si siede vicino a Gancio D’Oro sul divano in finta pelle. Andrea prende una scatola di cartone e la dà a lui.
«Qui ci sono tutti i miei ricordi: le sconfitte e le vittorie, quello che ero e quello che sono ora».
Nulla da dire sul suo italiano, improvvisamente perfetto.
Come prima cosa mi mostra un paio di guantoni raggrinziti di cuoio marrone. Poi la foto di lui in posa da campione con la guardia sinistra e lo sguardo famelico. Una tromba, che dice di saper suonare, e il diploma di laurea dell’Isef.
«Uscito di galera conobbi Anna, che presto diventò mia moglie».
Mi mostra una foto di una donna minuta circondata da bambini in grembiule e fiocco.
«Lei insegnava alle elementari, mi spinse prima a prendere un diploma alle scuole serali. Poi l’Isef, dove mi laureai con una tesi sulla storia del pugilato.
«Ho insegnato educazione fisica, prima come sostituto in varie scuole romane. Poi fino alla pensione in un istituto tecnico a Frascati».
Sono sorpreso, non mi aspettavo Gancio d’Oro professore di ginnastica. I suoi studenti devono essersi divertiti parecchio con lui. Forse imparando anche qualcosa.
«Fino ai primi anni Novanta gestivo una palestra dove ha lavorato anche Andrea. Poi ho mollato. Volevo ritirami da tutto. Anna era morta da poco e questa casa, che avevamo finito di pagare, rimase vuota. Andrea venne ad abitare con me, poi conobbe Elena, la cugina di Giovanna che abita dall’altra parte della strada, e da allora mi ha abbandonato anche lui».
«Ma dai, passo più tempo qui che a casa mia!», Andrea protesta con un sorriso.
«Io e Anna non abbiamo avuto figli. Quindi una volta che lei non c’era più mi sono ritrovato completamente solo e vecchio. Poi Andrea, Giovanna ed Elena sono diventati la mia famiglia. Siamo una squadra noi. Lottiamo per vivere. Insieme».
Impaziente, chiedo di Monzon che va knock out.
«Aspetta, prima devi sapere una cosa. So che Andrea ti ha raccontato dell’incidente alla manifestazione. Bene, è stato un caso, io non dovevo essere lì. Ero da un amico a pranzo, poi siamo usciti per un caffè. Il corteo scorreva senza problemi. La Polizia caricò a freddo, all’improvviso e fummo travolti. Persi il mio amico, che si rifugiò in un negozio, e rimasi lì, in balia degli eventi. In una frazione di secondi mi ritrovai con i polsi stretti da uno con la fascia tricolore che gridava: “Pezzi di merda, vi ammazziamo tutti!”.
«Non c’entravo niente con quella situazione. Non mi occupavo di politica, anche se la guerra in Vietnam la consideravo sbagliata… Semmai ci fossero guerre giuste. Fatto sta che quello stringeva, portandomi verso la camionetta: “Zitto stronzo! Adesso ti porto in caserma e vediamo se non c’entri niente come dici tu”.
«Con una mano mi teneva e con il manganello mi picchiava sulla schiena. Al terzo colpo ho ruotato il corpo e non so come sono riuscito a incastrare il manganello con il suo braccio che mi bloccava. Un urlo sordo. Il suo braccio penzolava. L’osso dell’ulna era completamente fuori dalla carne: spezzato. Riuscii a correre per poco, poi tutta la Celere di Roma mi era addosso».
Giovanna si alza e si avvicina alla finestra. Adesso posso vedere le sue gambe tornite e belle, niente a che vedere con l’anoressia delle nuove Pin up.
«Ma insomma la racconti o no ‘sta storia di Monzon?»
Giovanna strabuzza gli occhi che si riempiono di luce nell’attesa di un racconto che avrà sentito decine di volte. Ma io no. Non ancora.
«Va bene, va bene…».
Gancio d’Oro si alza in piedi e sposta un tavolino che era accanto al divano poggiandolo alla parete a formare un angolo retto.
«Fai conto che questo è il ring. Io mi trovavo stretto alle corde. Erano giorni che andava così. Lui picchiava e io incassavo cercando di portare qualche colpo. Dalle corde cercavo di portarlo al centro ma niente, lui mi ributtava lì. In uno di questi balletti mi ritrovai all’angolo, sempre massacrato dai suoi montanti. Feci un passo in uscita portando una parte del corpo fuori come a scartare, così trovai un’autostrada per colpirlo forte con il gancio sinistro. Cadde subito, come il silenzio che improvvisamente regnava a bordo del quadrato. L’allenatore venne con i sali per farlo riprendere, ma se avessero dovuto contare i secondi avrei vinto io. Alla terza ripresa».
Rimango affascinato dal suo racconto. Mi fa vedere altre foto con Monzon e la cintura di Campione del Mondo sfilata a Benvenuti. E Un biglietto con scritto «Vos es el Campeon» firmato da El Macho.
Poi mi spiega che prima di partire per l’Argentina Monzon lo convocò nel suo albergo. Gli consegnò i guantoni con i quali aveva battuto Benvenuti e quel biglietto. Anche cinquecentomila lire come regalo che non poteva rifiutare. Quei soldi contribuirono a farlo entrare in società con Ballarati nella palestra a Trastevere.
Disse che il campione Argentino lo ringraziò tantissimo, che senza quella caduta a terra non avrebbe vinto.
Cose da pugili penso io.
Si è fatto tardi e anche se vengo invitato a cena preferisco non rimanere.
«Prima che te ne vai voglio spiegarti che io non rubo per necessità. Quel che ho mi basta per comprare le cose che mi servono. Rubo per principio».
L’affermazione di Gancio d’Oro mi fa pensare ai dieci comandamenti, anche se non so in che posizione della classifica è non rubare.
«Prima che ci fottessero con l’euro esistevano molti negozi che vendevano tutto a mille lire. Il giorno dopo era tutto a un euro, che sono quasi duemilalire. Questo io lo chiamo rubare quindi mi comporto di conseguenza».
Il ragionamento di Gancio d’Oro non fa una piega.
«Non sono il solo a pensarla così. Oramai conosco un sacco di gente che lo fa. Non tutti per necessità, te lo dico per certo».
Andrea interviene: «Va bene Carletto, ma la prossima volta evita di venire a rubare dove lavoro».
«Guarda che volevo metterti alla prova», risponde Gancio d’Oro con un ghigno beffardo.
Per niente risentito, Andrea la prende a ridere, così come Giovanna e io, che mi unisco a loro.
«Tieni, questo è per te», Gancio d’Oro mi dà uno dei due guantoni che aveva tirato fuori dalla scatola.
«Voglio farti questo regalo perché sei stato in gamba. Hai capito la situazione e sei stato zitto. Mi hai riportato la dentiera. Senza avere paura».
Lo prendo anche se non saprei che farmene, ma lui mi spiega che quel guantone ha buttato giù Monzon: «No dai, questa è una reliquia! Tienilo tu, non devi…», provo a non accettare, ma intanto lui si prende il mio cappellino dei Kniks e se lo mette in testa.
«Io prendo il cappello con la visiera che mi serve. Tu prendi quel guantone e basta».
Non provo neanche a contraddirlo, stringo il guantone con le mani. Infondo me lo sono meritato.
Ci lasciamo con la promessa di rivederci presto. Giovanna dice che tutte le domeniche fanno un pranzo in giardino e che da ora in poi faccio parte della famiglia di Gancio d’Oro quindi non posso mancare.
Trovo un autobus che mi riporta sulla via di casa.
Stringo ancora quel guantone.
Cerco di trarne la forza.
Per un’estate che non è ancora finita.
Per l’autunno che arriverà.
ascolti consigliati dall’autore
Hurricane, Bob Dylan * Gimme some Thruth, John Lennon * Bridge over the Troubled Water, versione di Elvis Presley * The Bed, Lou Reed * Some girls are bigger than others, The Smiths.
ascolti consigliati da gancio d’oro
Sonata per pianoforte KV 331 III. Rondò alla Turca, W. A. MOZART * I fall in love too easily, Chet Baker * Flamenco Sketches, Miles Davis * Sempre, Gabriella Ferri * Verranno a chiederti del nostro amore, Fabrizio De Andrè
Bruno Ikcs - Roma