Quel giorno il campo era un pantano e la palla rotolava appena.
Ero lì che aspettavo il mio turno.
«Sei il prossimo, scaldati», l’inserviente del Genoa incalzava, e dopo gli esercizi entrai nel rettangolo con il cuore pieno di speranze e la corsa nella testa.
Stop di petto, palla a terra, lanci e recuperi, poi con un tiro da fuori area bucai il portiere.
Era andata bene.
Avevo da poco l’età per la patente, un contratto semiprofessionistico con i Grifoni e finalmente il futuro mi sembrava facile.
Mi ripetevo di cercare una cabina, erano i primi anni Ottanta, e i telefonini non esistevano. Dovevo avvertire mio padre, che mi avrebbe voluto con sé a fare il fabbro, e mia madre, secondo cui avrei potuto lavorare in cucina come lei, che i loro programmi sarebbero saltati. Mi aspettava la maglia rossoblù, avrei corso sulla fascia, preso i gialli e i rossi, tirato calci… insomma, sarei stato un calciatore.
Tanta pioggia come quel giorno non si era mai vista e faticai per trovare un bar con il telefono.
La conversazione fu breve, mio padre infondo era contento, mia madre disperata, perché era la prima volta che mi allontanavo da Cosenza e ora, di colpo, mi sarei trasferito al Nord per inseguire un pallone insieme ai miei sogni.
La stazione non era molto lontana e l’autobus che ci arrivava stava raggiungendo la fermata, che era a qualche centinaio di metri da dove mi trovavo.
Lo vidi. E quando capii che si stava muovendo mi misi a correre come un pazzo, schivando automobilisti, pedoni e pioggia, con i passeggeri a fare il tifo per me, il borsone con gli attrezzi del mestiere in una mano e l’altra libera, a tenere l’equilibrio.
Con uno scatto mi avviavo verso il traguardo, la linea di porta, la fermata.
Fu un attimo, una frazione di secondo, e volai sull’asfalto, anche se ancora oggi non ricordo nulla: buio assoluto.
Probabilmente l’autobus si fermò, il conducente scese con le mani nei capelli e qualche passeggero chiamò l’ambulanza.
Mi risvegliai all’Ospedale con una frattura multipla alla gamba destra e i medici mi dissero che un automobilista aveva saltato uno stop e mi aveva preso in pieno. Mi dissero anche di chiamare casa perché per un po’ di tempo sarei dovuto rimanere lì.
Ci rimasi quasi due mesi in quel posto, mentre la carriera che avevo appena immaginato scivolava via, come le stampelle che ero costretto a usare.
Se ci penso ancora piango quando guardo te che corri su quella fascia, crossi e tiri, come facevo io, uguale.
Se ci penso ancora rido e spesso lo faccio con tua madre, che non avrei mai conosciuto se non fosse per quell’incidente. Lei, dottoressa, che mi ha curato e poi fatto giurare sull’altare.
Sapevi già che con tua madre c’eravamo conosciuti a Genova , ma questa cosa non te l’avevo mai raccontata. Ti ho sempre accompagnato agli allenamenti, ma lo sai che non parlo di calcio. E anche se adesso non si capisce più così tanto che zoppico non mi hai mai visto calciare un pallone.
Eppure ti assicuro che tu lo fai in un modo molto simile al mio. O a quello che era il mio…
Finisco di scriverti questa mail e vado a dormire. Domani partiamo molto presto perché non vogliamo perdere il tuo esordio con il Genoa Primavera per nulla al mondo.
Immagino anche che adesso capirai perché ti dico sempre di non correre mai dietro a un autobus.
Buonanotte figlio mio. E a domani,
papà.
Bruno Ikcs – Roma