Prendi Maradona, ad esempio. Il più grande di tutti, ormai si può dire a unanime giudizio dell’umanità calciofila. Il più grande per tutta una serie di motivi, legati alla magia tecnica senza dubbio, e poi al personaggio, a tutto un immaginario di ribellione, alla fragilità che ne faceva un Dio molto vicino alle umane sorti. Sicuramente, non per trofei vinti: si potrebbe fare un elenco bello lungo di giocatori che nella storia hanno vinto più di lui. Il fatto è che Maradona, il più grande di tutti, ha passato la maggior parte della propria carriera, 7 anni, a Napoli. Una squadra che fino a quel momento aveva vinto due Coppe Italia e basta. Nessuno scudetto, a differenza di, per dire, Fiorentina, Verona, Cagliari. Finanche Pro Vercelli e Casale, anche se nelle nebbie dei tempi. Certo, in una delle città più grandi e popolose d’Italia, ma anche in una di quelle più povere, difficili e bistrattate. Reduce dalle epidemie e dalle macerie umane e morali del terremoto in Irpinia, bersaglio del dileggio di tutte le tifoserie del centro-nord. Due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia, più un Mondiale fatto vincere alla più “napoletana” delle nazionali, che non poteva che essere la sua. Basta questo per essere eterna leggenda, per diventare epica popolare come gli eroi omerici, per far piangere centinaia di milioni di persone nel mondo, compresi tanti rivali che gli tifavano contro. L’impresa sportiva, fatta fuori e contro dai soliti santuari, dai grandi club, dai salotti in cui inchinarsi ai potenti.
Nella storia del calcio non c’era mai stato così poco tempo tra la fine ufficiale di una stagione e l’inizio di una nuova, in modo da non poter neanche metabolizzare fino in fondo quello a cui abbiamo assistito. Quasi come se ci fossimo appena alzati dal tavolo da pranzo di una trattoria di bassa lega, e con ancora il pasto da digerire ci apprestassimo a sederci per cenare in un altro locale di cui abbiamo letto solo qualche recensione a dir la verità più interessata che interessante.
Certo, il tutto è da addebitare alla pandemia e al relativo lockdown, occorre sempre ricordarlo per rispetto di chi ha drammaticamente pagato il prezzo più alto, ma sarebbe opportuno che lo avessero ricordato tutti e ad ogni livello, ma d’altro canto pretendere empatia da chi è atavicamente portato a pensare solo ed esclusivamente ai cazzi suoi (fatturati, sponsor, diritti tv eccetera) è come pretendere che un leone diventi vegano.
Era da tempo che si avvertiva la necessità di un incontro nazionale che riuscisse a creare dei momenti di confronto tra i protagonisti della scena del calcio popolare. Anche dalla nostra pagina, avevamo più volte espresso questo bisogno per poter fare il punto della situazione, a maggior ragione dopo una situazione eccezionale come quella del lockdown che ha scompigliato le carte praticamente a tutte le realtà. Così quando siamo venuti a conoscenza dell’organizzazione di questo evento da parte di un gruppo di realtà della Toscana del Nord e della Liguria – che già da qualche tempo lavorano in sinergia e riescono a elaborare proposte di ampio respiro e mai banali – abbiamo salutato con piacere l’iniziativa, perché avrebbe colmato un vuoto che cominciava a essere troppo ingombrante e che andava riempito con il vissuto di chi è quotidianamente protagonista dell’inarrestabile sviluppo (che probabilmente sta andando ben oltre le previsioni) di un movimento che non è solo un altro modo di vedere e vivere il calcio, ma anche la punta avanzata delle pratiche di riappropriazione nel nostro paese.
Probabilmente ci vorrà ancora un po' di tempo per comprendere pienamente la portata storica degli eventi che, partendo dalla “bolla” di Disney World in cui si stanno disputando i play-off di NBA, hanno avuta una ricaduta a cascata su tutto lo sport statunitense, ma è indubbio che quanto sta accadendo sia destinato a segnare uno spartiacque non solo nel mondo agonistico, ma anche all’interno della società statunitense e di tutti i suoi molteplici osservatori sparsi in ogni angolo del globo, con buona pace dei nostri quotidiani sportivi nazionali che ormai sembrano propendere per una linea editoriale a metà strada tra il gossip e il fantamercato.
Si fa un gran parlare in queste settimane della ripresa o meno dei campionati, non solo in Italia ma in tutto il calcio europeo e oltre. Tra protocolli sanitari arzigogolati e poco credibili e pressioni dettate da esigenze di business, si va verso una ripresa con gli stadi a porte chiuse e con l'incognita che da un giorno all'altro potrebbe di nuovo fermarsi tutto, se il virus dovesse decidere di tornare a farsi vivo in modo minaccioso.
In questo contesto stanno girando anche le prese di posizione degli ultras: c'è un comunicato firmato da centinaia di gruppi a livello europeo, ci sono altri comunicati e volantini più individuali e collaterali di singoli gruppi o singole città, ma sostanzialmente tutti sullo stesso tono. Il calcio senza gli spalti affollati dai tifosi non dovrebbe riprendere. Lineare, giusto, ineccepibile.
Un punto di vista differente sui fatti di stretta attualità sportiva e sociale.
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