Poco più di un anno fa ci trovavamo a tirare le somme di quella che è stata la stagione più trionfale finora per tutto il movimento del calcio popolare (con ben 7 campionati vinti nel calcio maschile, due campionati femminili e uno di calcio a cinque) che coincideva con uno dei momenti più tristi e depressi per il calcio italiano, culminato nell’inopinata esclusione della nostra nazionale dai Mondiali russi e da grottesche discussioni, o sarebbe meglio dire aspri contraddittori, a mezzo tv (rigorosamente a pagamento) tra gli esteti e gli utilitaristi del calcio, col discorso che inevitabilmente andava a premiare chi vince, perché “chi vince ha sempre ragione”, come alla fine funziona ovunque ed emerge anche dalle ultime elezioni europee.
Il “limite”, questa era la parola d’ordine dell’edizione del 2018 di Logos – La festa della parola, uno degli eventi culturali indipendenti e antagonisti più importanti nella Capitale. E con immenso piacere abbiamo contribuito a costruire il dibattito che è andato in scena sabato pomeriggio, in cui si è cercato di calare il concetto di “limite” nella realtà attuale dello sport popolare. E il tema per la verità capitava a fagiolo, perché la questione più importante e complicata che molte realtà si stanno trovando ad affrontare in questi anni è proprio quella della sostenibilità economica, della conciliazione tra l’ottenimento dei risultati sportivi e il mantenimento di un modello organizzativo non solo diverso ma rivoluzionario. Insomma, è proprio a questo livello che si incontrano i limiti, e occorre attrezzarsi per affrontarli e superarli. L’incontro è stato ricco di interventi, da quelli programmati di Centro Storico Lebowski, Atletico San Lorenzo, Lokomotiv Prenestino (i padroni di casa dell’Ex Snia), San Precario (contributo video) e Lokomotiv Flegrea (via telefono), a quelli che si sono aggiunti, specie di realtà nate da meno tempo come Zona Orientale Rugby Salerno e Borgata Gordiani, e del Comitato di quartiere della Certosa.
Alle estati costellate di fallimenti e ripescaggi, ricorsi e tribunali, eravamo ormai tristemente abituati da tempo. Il nostro amato e odiato calcio italiano martoriato in modo quasi folkloristico da cialtroni, arraffoni, truffatori, bancarottieri. Che con la passione dei tifosi giocano come maldestri equilibristi, pronti a promettere sorti magnifiche mentre rischiano a ogni passo di cadere nel baratro, trascinando tutto con sé. E con quell’equilibrio marcio tra istituzioni, sportive e non, di vario ordine e grado, che dispensano penalizzazioni e ripescaggi con logiche e dinamiche che a noi ignari abitanti della terra non verranno mai chiarite. Si è perso il conto di quanti anni siano che, dalla Serie B in giù, i playout e i playoff si disputano come un puro esercizio di stile: partite che per loro natura sono l’emblema del pathos, che nascondono tra le loro pieghe le lacrime di folle esultanza o di irreversibile disperazione, esprimono verdetti che non arrivano quasi mai fino a settembre.
Difficile dire se sia stato il più bel Mondiale di sempre, come pure hanno dichiarato fino allo sfinimento i cronisti Mediaset, ma sicuramente Russia 2018 è stato un torneo avvincente e lo ricorderemo a lungo, sia per motivi tecnico-sportivi che di contesto. Paradossalmente proprio l'assenza dell'Italia (oltre alla trasmissione in chiaro di tutte le partite) ha consentito agli appassionati quell'imparzialità, altrimenti impossibile, per analizzare lucidamente la competizione e interpretare quello che ci ha detto. Sul campo sono crollate tante certezze che sembravano granitiche fino a poche settimane fa: alla fine ha trionfato una squadra che nonostante individualità eccezionali fa del gruppo il proprio punto di forza, hanno steccato buona parte delle stelle, qualcuna è stata ridimensionata ai limiti della derisione personale, mentre da altre ci si attendeva molto di più. Il tiki-taka ha esaurito la sua spinta innovatrice e spesso è degradato al rango di possesso sterile che prestava il fianco ai repentini capovolgimenti di fronte, quei contropiedi tanto bistrattati negli ultimi tempi. Il campo ha premiato chi verticalizzava, con effetti positivi anche sulla spettacolarità di molte partite, se pensiamo ai due ultimi Mondiali, quelli del tiki-taka trionfante e della noia quasi totalizzante, c’è da tirare un sospiro di sollievo.
Giusto il tempo di metabolizzare la suggestione collettiva di un Davide finalmente vittorioso contro Golia, che portava con sé, almeno nella visione più oltranzista, anche un portato escatologico, ed è arrivata la fine di questa stagione calcistica che non ci ha riservato nessuna particolare sorpresa: i più potenti e anche più arroganti vincono (con aiuti o meno, lo lasciamo giudicare ai moviolisti di professione), chi perde si lamenta con gli altri piuttosto che fare il mea culpa.
Anzi, al contrario questa stagione ha evidenziato per l’ennesima volta, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, gli splendori e le miserie del calcio nostrano, dei suoi interpreti e dei suoi amanti e il perché, in un modo o in un altro, certi equilibri restano ancora cristallizzati e lontani dall’essere superati, basti vedere i toni apologetici di quest’ultimo weekend. D’altronde si sa, noi italiani siamo veramente bravi a santificare persone senza merito, quasi come lo siamo nelle riabilitazioni postume, ma questo è un altro discorso…
Un punto di vista differente sui fatti di stretta attualità sportiva e sociale.
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