Chi scrive porta nel cuore squadre lontane anni luce dalla Superlega, e per le quali nella storia, quando hanno incontrato le tre “strisciate” del Nord, è sempre stato un recitare il ruolo di Davide contro Golia; pertanto pensiamo di avere la giusta dose di lucidità e coinvolgimento per ragionare su questa vicenda senza farsi assalire dalla partigianeria o peggio ancora da malsane suggestioni fingendosi caduti dal pero.
D’altronde è da almeno 2500 anni, dalla famosa “serrata del patriziato” della repubblica romana, che ciclicamente assistiamo a prove di forza da parte dei ceti abbienti per preservare i propri privilegi; dalla Serenissima all’Inghilterra della Magna charta libertatum, gli esempi nella storia abbondano, ed essendo il calcio una rappresentazione plastica della realtà sociale, era solo questione di tempo che i club più ricchi alzassero ulteriormente l’asticella. Anzi, paradossalmente vedendola dalla prospettiva di questi club, il discorso potrebbe anche filare, ma come cantava De André (fortunatamente) al loro posto non ci sappiamo stare.
Alla fine, con un paese quasi interamente in zona rossa e una campagna vaccinale in cui al momento sono maggiori i punti interrogativi rispetto ai successi, si è deciso che il campionato di Eccellenza ripartirà. Perché di interesse nazionale, in quanto le squadre da essa promosse andranno a sostituire le retrocesse dalla serie D, che si sta disputando “regolarmente”, anche se minata da rinvii dovuti ai contagi che falsano in modo pesante l'andamento dei vari gironi, e ovviamente a porte chiuse, cosa che nel calcio dilettantistico è ancora più surreale in quanto non c'è nemmeno un pubblico televisivo (ok, c'è il diritto per le società di trasmettere dalle proprie pagine social, ma insomma poco cambia), e quindi non si capisce davvero “per chi” si giochi. Ma tant'è.
Prendi Maradona, ad esempio. Il più grande di tutti, ormai si può dire a unanime giudizio dell’umanità calciofila. Il più grande per tutta una serie di motivi, legati alla magia tecnica senza dubbio, e poi al personaggio, a tutto un immaginario di ribellione, alla fragilità che ne faceva un Dio molto vicino alle umane sorti. Sicuramente, non per trofei vinti: si potrebbe fare un elenco bello lungo di giocatori che nella storia hanno vinto più di lui. Il fatto è che Maradona, il più grande di tutti, ha passato la maggior parte della propria carriera, 7 anni, a Napoli. Una squadra che fino a quel momento aveva vinto due Coppe Italia e basta. Nessuno scudetto, a differenza di, per dire, Fiorentina, Verona, Cagliari. Finanche Pro Vercelli e Casale, anche se nelle nebbie dei tempi. Certo, in una delle città più grandi e popolose d’Italia, ma anche in una di quelle più povere, difficili e bistrattate. Reduce dalle epidemie e dalle macerie umane e morali del terremoto in Irpinia, bersaglio del dileggio di tutte le tifoserie del centro-nord. Due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia, più un Mondiale fatto vincere alla più “napoletana” delle nazionali, che non poteva che essere la sua. Basta questo per essere eterna leggenda, per diventare epica popolare come gli eroi omerici, per far piangere centinaia di milioni di persone nel mondo, compresi tanti rivali che gli tifavano contro. L’impresa sportiva, fatta fuori e contro dai soliti santuari, dai grandi club, dai salotti in cui inchinarsi ai potenti.
Nella storia del calcio non c’era mai stato così poco tempo tra la fine ufficiale di una stagione e l’inizio di una nuova, in modo da non poter neanche metabolizzare fino in fondo quello a cui abbiamo assistito. Quasi come se ci fossimo appena alzati dal tavolo da pranzo di una trattoria di bassa lega, e con ancora il pasto da digerire ci apprestassimo a sederci per cenare in un altro locale di cui abbiamo letto solo qualche recensione a dir la verità più interessata che interessante.
Certo, il tutto è da addebitare alla pandemia e al relativo lockdown, occorre sempre ricordarlo per rispetto di chi ha drammaticamente pagato il prezzo più alto, ma sarebbe opportuno che lo avessero ricordato tutti e ad ogni livello, ma d’altro canto pretendere empatia da chi è atavicamente portato a pensare solo ed esclusivamente ai cazzi suoi (fatturati, sponsor, diritti tv eccetera) è come pretendere che un leone diventi vegano.