Giovedì scorso, 30 maggio 2025, cadeva la ricorrenza del 600° giorno di genocidio sionista a Gaza. Nella striscia abitata dal popolo palestinese, ma anche nella zona conosciuta con il nome di Cisgiordania, i soldati dell’IDF (Israel Defense Forces) stanno mettendo in atto una vera e propria pulizia etnica senza che nessuno faccia nulla.
Da parte della politica mainstream infatti non è stata presa nessuna decisione concreta verso il governo di ultra-destra di Tel Aviv guidato da Benjamin Netanyahu. Anche le poche decisioni che provavano a mettere in dubbio i numerosi trattati, soprattutto economici e legati alla vendita di armi, che legano la maggior parte dei paesi “democratici” europei con il governo sionista, non hanno ricevuto l’appoggio del Vecchio Continente.
Germania e Italia, ad esempio, non hanno firmato una semplice sollecitazione fatta dall’alto rappresentante Ue Kallas che chiedeva di “condurre una revisione del rispetto dell’articolo 2 dell’accordo di associazione con Israele”. Guarda caso si sono opposti i due stati che furono la culla del fascismo e del nazismo; ma sì sa che la storia è sempre quella!
Anche le parole spese dai maggiori leader politici europei lasciano il tempo che trovano. Se poi non si passa immediatamente dalle parole ai fatti si parla semplicemente di pura e schifosa ipocrisia.
Se tutto è politica, ricevere Conor McGregor alla Casa Bianca nel giorno di San Patrizio non può essere casuale.
Molti potrebbero considerare l’ex campione irlandese della Ufc (Ultimate Fighting Championship), recentemente condannato per stupro, un impresentabile. Evidentemente non il presidente Trump che più volte ha manifestato non solo apprezzamento verso il trascorso sportivo di McGregor, ma anche vicinanza umana e stima professionale.
Ormai lontano da parecchio tempo dall’ottagono McGregor ha infatti creato un piccolo impero fatto di attività immobiliari e società, dal whiskey alla birra, alle promotion di sport da combattimento. Ha dismesso i panni del combattente, scegliendo le sete pregiate degli abiti di sartoria della buona borghesia.
Meglio tardi che mai. È proprio il caso di dirlo. Specie se il ritardo più che trentennale riguarda la morte di un ragazzo di ventisette anni. L’ultimo capitolo giudiziario sulla morte di Denis Bergamini è la prova di come sia sempre possibile riscrivere una verità processuale anche dopo anni di distanza. 35, per l’esattezza. Piú di tre decenni per giungere a un primo – ma comunque fondamentale – verdetto: Denis Bergamini è stato ucciso. La revisione di un processo archiviato (oggi è possibile affermarlo) troppo frettolosamente come suicidio non sarebbe stata possibile senza la tenacia della famiglia Bergamini. Di Donata, in primis. Una donna caparbia che ha sempre lottato per fare luce su quanto accadde a suo fratello quel maledetto 18 novembre 1989.
Il gioco del calcio a volte è strano. Anche quando si parla di un evento importante come una finale di una coppa europea.
Poche ore fa si sono giocate le semi-finali di ritorno di Conference League per decidere chi si sfiderà nella finalissima di Atene il prossimo 29 maggio. A staccare il pass sono state la Fiorentina di Vincenzo Italiano e l’Olympiacos del basco José Luis Mendilibar.
Per i rossobianchi ateniesi è una sfida in casa quella che li attende all’ombra del Partenone. Il problema semmai è di altra natura.
Lo stadio del match, l’Agia Sophia (dai più conosciuto come l’OPAP Arena), sarà quello di un’altra squadra della capitale greca, l’AEK Atene. I gialloneri, assieme al Panathinaikos, sono dei rivali storici della finalista di Conference.