Stasera andrà in scena l’atto conclusivo di questa Copa Libertadores tra River Plate e Flamengo, la prima finale unica, la seconda di fila con spostamento di sede: infatti dopo quanto accaduto l’anno scorso per il Clasico tra Boca Junior e River Plate, costrette a giocare il ritorno a Madrid, quest’anno a cambiare i piani della Conmebol ci ha pensato il popolo cileno che ha costretto il massimo organismo del calcio sudamericano a dirottare la sede da Santiago a Lima.
Se da un lato troviamo una formazione abituata a certi palcoscenici nonché squadra detentrice del trofeo, vale a dire il River Plate, dall’altro invece c’è il gradito ritorno di una grande del calcio carioca che non raggiungeva vette simili dai tempi dell’amatissimo Zico. Lungi da noi voler sminuire il valore della partita più importante del subcontinente, ma in contemporanea il team brasiliano sta disputando un’altra partita, importante anche questa, la cui posta in palio è l’anima e l’identità della squadra rosso-nera, la più seguita e amata in patria insieme al Corinthians.
Dopo l’exploit mediatico dei mondiali francesi di quest’estate, il calcio femminile sembrava essere ritornato, se non proprio nell’oblio, quantomeno al di fuori dei radar degli appassionati di sport, che ogni tanto ricevono qualche timido input a riguardo come ad esempio le attenzioni sul big-match di domenica scorsa tra Milan e Juventus, capitato fortunosamente durante una domenica di pausa del campionato maschile.
Se è vero, come tanti soloni amano ripetere fino allo sfinimento, che il calcio è l’oppio dei popoli, evidentemente in Cile ne sta girando una partita tagliata molto male.
Seguendo un copione che abbiamo già visto all’opera in Turchia, in Grecia e durante le “primavere arabe”, le barras-bravas più numerose e influenti del paese si sono riunite contro il nemico comune costituito dal governo e soprattutto dall’esercito che sembra si sia rituffato in un revival di quelle triste notti cilene degli anni ’70 con tutto quel corollario di omicidi, sequestri, stupri e torture che fanno indignare i liberal occidentali a intermittenza ed evidentemente non in questo caso.
Una delle cose che il nuovo millennio (ma le radici affondano ben prima) ha appurato è che il calcio, il raccontare il calcio e la speculazione faziosa su entrambi, come ad esempio quella che ha riguardato l’idealizzazione del derby di Berlino che è andato in scena sabato 2 novembre, possono essere uno straordinario strumento di propaganda politica.
Era sicuramente il derby più atteso dell’anno nel vecchio continente e non sarebbe potuto essere altrimenti: dalla caduta del Muro, per la prima volta nel massimo campionato tedesco si affrontavano due squadre berlinesi, la neo-promossa Union e l’Hertha, così vicine e così lontane per una serie sterminata di motivazioni. Principalmente per i campionati in cui hanno militato per gran parte della loro storia: l’Hertha disputava quello della Germania dell’Ovest, mentre l’Union quello della Germania orientale; ma anche il background d’appartenenza sia delle squadre che di conseguenza quindi anche quello delle rispettive tifoserie: i biancoazzurri risiedono nel quartiere borghese di Charlottenburg con una tifoseria piuttosto freddina, mentre i biancorossi dal quartiere operaio di Kopenick, il che lo ha reso il club per antonomasia vicino agli operai, principalmente metallurgici, da qui l’epiteto di Eisern Union (Unione di ferro) per il club, mentre i suoi tifosi sono da sempre chiamati Schlosserjungs, i ‘ragazzi metalmeccanici’.