Istintivamente in moltissimi, nel vedere il match valido per l’ultima giornata del gruppo B dei Mondiali tra Spagna e Marocco, suggestionati dal dibattito politico nostrano, ma soprattutto (per lo meno, ci auguriamo) dal dramma umanitario che si consuma senza soluzione di continuità su entrambe le sponde del Mediterraneo, avranno salutato l’impresa a metà compiuta dalla nazionale marocchina come una sorta di rivincita per Ceuta.
Nonostante se ne parli poco, questa cittadina autonoma della Spagna, che insieme all’altra enclave Melilla si trova nel continente africano, ha il triste primato di ospitare un muro di separazione (finanziato dall’UE per 30 milioni di euro) fortificato, con del filo spinato, una doppia barriera alta tre metri (ma che dovrebbe arrivare a sei coi prossimi lavori di ristrutturazione) con sensori visivi e acustici per scoraggiare le migrazioni verso la penisola iberica, e che dal 1975 viene rivendicata dal Marocco.
Anche in questa edizione dei Mondiali, la solita schiera degli "yugo-nostalgici", della quale rivendichiamo apertamente di far parte, si è dilettata a immaginare la formazione che potrebbe avere oggi la Yugoslavia, il Brasile d'Europa, se fosse ancora unita. Come quasi sempre, sarebbe tra le grandi favorite per la vittoria finale. Ma come ben sappiamo, questo è uno sterile volo di fantasia, perché la Yugoslavia si è dissolta, o meglio disintegrata in mille pezzi, con tracce di sangue che non accennano ad andarsene. Serbia e Croazia stanno partecipando, anche con formazioni di tutto rispetto. È probabile che torneremo ancora a parlarne. Per adesso vi proponiamo la traduzione di questo articolo, che racconta un processo storico che mette tanta tristezza, ma che allo stesso tempo è interessante e utile conoscere: la trasformazione da socialismo multietnico a nazionalismo sciovinista nella mentalità degli sportivi, che sono parte importante della società balcanica.
Esistono giornate che difficilmente si dimenticano, che si segnano indelebili nei cuori di chi le vive. Per arrivare a viverle devi sacrificarti, devi importi un regime di concentrazione massimale, devi far conciliare il tuo mondo quotidiano con l’aspirazione della vittoria.
Devi essere tu artefice del tuo destino, devi essere tu a desiderare la vittoria come il bene per tutti, devi giocare, sudare, comprometterti con la tua squadra così visceralmente che a volte è difficile capire il labile confine tra il tuo intimo privato e l’orgia emozionale che ti catapulta nel tuo essere sociale. Sportivo, militante, simpatizzante, qualsiasi cosa tu sia o scelga di essere a volte gli eventi esondano le aspirazioni e noi, tutti noi che c’abbiamo creduto siamo stati attraversati da questa onda rossoblù.
Sabato 16 giugno 2018 un altro pezzo di storia l’abbiamo scritta, un’altra conferma che la visione di un calcio (e di uno sport) bello, per tutti e vincente può e deve esistere.
Allora sia chiaro, come realtà sportiva non le si può dire niente: un paese che ha all’incirca gli abitanti di Firenze (poco più di 300mila) manda la squadra ai Mondiali, e anche una squadra competitiva, e non potrebbe essere altrimenti, perché se ti qualifichi da europea, conquistarsi i Mondiali sul campo non è facile. Panama può anche capitare per caso, l’Islanda no. Una cultura sportiva diffusissima a livello sociale, di grande accessibilità a tutti, fa sì che a dispetto del bacino di atleti molto ristretto questa isoletta mandi ai Mondiali una squadra capace di pareggiare con l’Argentina, difendendosi in modo arcigno e dignitoso. A seguire la nazionale nella sua prima (ed è sempre comunque possibile che rimanga l’unica) partecipazione mondiale, circa 40mila persone, più di un abitante su 10, con l’isola semi-spopolata. Per loro, è senza dubbio una cosa bellissima ed emozionante.