Allora sia chiaro, come realtà sportiva non le si può dire niente: un paese che ha all’incirca gli abitanti di Firenze (poco più di 300mila) manda la squadra ai Mondiali, e anche una squadra competitiva, e non potrebbe essere altrimenti, perché se ti qualifichi da europea, conquistarsi i Mondiali sul campo non è facile. Panama può anche capitare per caso, l’Islanda no. Una cultura sportiva diffusissima a livello sociale, di grande accessibilità a tutti, fa sì che a dispetto del bacino di atleti molto ristretto questa isoletta mandi ai Mondiali una squadra capace di pareggiare con l’Argentina, difendendosi in modo arcigno e dignitoso. A seguire la nazionale nella sua prima (ed è sempre comunque possibile che rimanga l’unica) partecipazione mondiale, circa 40mila persone, più di un abitante su 10, con l’isola semi-spopolata. Per loro, è senza dubbio una cosa bellissima ed emozionante.
Probabilmente se Carlos Queiroz, l’allenatore che è riuscito a far qualificare l’Iran ai mondiali per ben due volte di fila, avesse saputo che sarebbe capitato nello stesso girone di Spagna e Portogallo, avrebbe evitato di affermare, all’indomani della qualificazione alla fase finale ottenuta grazie a un successo sull’Uzbekistan, che la sua squadra sarebbe andata in Russia con velleità di passaggio del girone. Anche se la fortunosa vittoria di ieri contro il Marocco permette ancora di sognare. Ma in fin dei conti non è mai stato l’aspetto prettamente calcistico la principale attrattiva indotta dalla partecipazione della nazionale iraniana ai mondiali.
I dinosauri della terra calcistica teutonica hanno abdicato.
Non è bastata la vittoria casalinga per 2-1 contro il Borussia Mönchengladbach, nell’ultima giornata dello scorso 12 maggio. Il fantomatico orologio del Volksparkstadion, che dal 2003, anno della sua installazione, segnava gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i minuti e i secondi di permanenza della squadra in Bundesliga, si è miserabilmente azzerato. Poco dopo un vero e proprio delirio pirotecnico di disappunto messo in atto dalla Nordkurve Blau-Weiss.
Dopo 54 anni dalla nascita della Bundesliga, l’Amburgo retrocede in Zweite Liga, lasciando a Inter, Barcellona, Real Madrid, Athletic Bilbao e poche altre compagini in Europa il prestigioso primato di aver sempre disputato i rispettivi campionati di massima serie.
In realtà il fascino per gli ormai ex dinosauri della massima serie teutonica non è legato solo al famoso orologio “Bundesliga Uhr” ormai spento o ai fasti di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta del Novecento, culminati con la vittoria della Coppa dei Campioni nel 1983 in quel di Atene contro la Juventus.
Con l’imminente arrivo dei Mondiali di calcio, soprattutto per chi, come noi calciofili di tutta la penisola, sarà relegato al ruolo di “spettatore” non interessato, le analisi sulle implicazioni extra-agonistiche del calcio internazionale si sprecano. Infatti, tra un ricorso a quelle categorie che ormai abbiamo perfettamente metabolizzato (dal “soft power” allo “sport washing”) e l’altro, anche attraverso queste pagine è stato più volte sostenuto il concetto che l’acquisizione di legittimità di uno stato o del suo nuovo protagonismo sullo scacchiere politico passi inevitabilmente anche dal pianeta calcio.
Allo stesso tempo, in maniera perfettamente speculare, il calcio può diventare anche il veicolo per far conoscere e per rilanciare le velleità indipendentiste sparse qua e là per il pianeta; è proprio in quest’ottica che sono nati i mondiali per le nazionali degli stati non riconosciuti dei quali si sta disputando in questi giorni la terza edizione.