Quella appena trascorsa, con ancora alcuni importanti verdetti da decretare, si può già dire che sia stata una stagione straordinaria per il calcio popolare nel nostro paese. Oltre al moltiplicarsi di questo tipo di società sportive, sia nei campionati ufficiali che nel mondo UISP, e ai fondamentali valori di aggregazione e socialità che sono l'anima di questi progetti, una grande verità emerge in modo sempre più prepotente: il calcio popolare funziona, è un modello perfettamente in grado non solo di creare consensi e simpatie, ma di vincere sul campo, di sbaragliare gli avversari e ottenere promozioni a raffica. Passiamo velocemente in rassegna la stagione, non per tutte conclusa, delle squadre di calcio popolare che il nostro progetto segue e seguirà più assiduamente, ovvero quelle iscritte ai campionati della Federazione, che non si limitino ad avere il modello dell'azionariato popolare, ma portino avanti anche un discorso antirazzista e solidale, oltre ad un rifiuto netto e attivo del “calcio dei padroni”.
Nelle loro coreografie ci sono black block, tagliatori di teste ispirati a Jason Voorhees – il cattivo mascherato dei film horror anni ’80 – e il comandante Che Guevara.
I loro simboli richiamano il vissuto operaio di Liegi, importante centro minerario e città proletaria per eccellenza del Belgio (al punto da essere gemellata con Volgograd, ovvero Stalingrado, e Torino) e nella curva dello stadio non mancano le “pezze” antifa, le stelle rosse e i pugni chiusi. Si chiamano Ultras Inferno ’96 e sono nati il 17 agosto 1996 diventando il più importante gruppo di tifo organizzato del paese.
Scrivono sui loro striscioni “Reds or death” ma sono i primi a dedicarsi a collette alimentari, autorganizzando la resistenza contro la vita moderna, soprattutto nei quartieri popolari della città.
Mai avuta familiarità con il clima delle trasferte, quello che, raccontano, ti fa svegliare con il corpo febbricitante, con le gambe impazienti e gli occhi vispi.
Ciò che di più simile conosco, che mi torna in mente, è il clima della vigilia di importanti cortei, che somigliano a viaggi di cui si conosce solo la partenza e l'ipotetica, supposta destinazione.
Quelli in cui ti trovi a fare zaini che devono contenere molte cose necessarie e al tempo stesso poco peso per affrontare la fatica e gli imprevisti.
Questa trasferta inizia giorni prima, negli spogliatoi, quando allacciandosi le scarpe e mettendo le fasce si inizia a sentire che si avvicina davvero. Venerdì l'allenamento è aperto, collettivo, condiviso con le altre palestre di Torino e non solo. Arrivano da Bergamo e da Monza, due pulmini, li aspettiamo per condividere sudore e fatica, cibo e birra, letti scomodi e levatacce delle 7 di mattina. C'è anche una film-maker ed il suo progetto di un film sul mondo delle palestre popolari, la sua telecamera ed i suoi occhi attenti che seguono piedi che ruotano per “azionare la catena cinetica”, così mi dicevano ad uno dei primi allenamenti.
Scorrendo il tabellone delle qualificazioni agli Europei di Francia 2016, una nuova squadra si candida a vincere l'ideale trofeo della curiosità e della simpatica derisione che spetta a tutti i “troppo piccoli per essere veri”, scalzando le varie San Marino, Andorra, Liechtenstein e compagnia bella. A destare sorpresa è anche il fatto che l'ultima arrivata rappresenta un'entità lontanissima dall'essere uno Stato indipendente, tanto che la prima stupita domanda che viene spontanea è “ma questi che c'entrano?”. Stiamo parlando di Gibilterra, un lembo di terra che ha in realtà una storia millenaria, che molti grandi e potenti Stati-nazione si sognano.