Il dio denaro ha ancora una volta mostrato il suo fallimento nel mondo del pallone. È una delle prime cose che ho pensato vedendo il cammino in Champions League della tanto blasonata Inter di Antonio Conte. Questa estate, dato anche il sontuoso mercato della squadra nerazzurra, in molti vedevano il club meneghino come la protagonista della stagione sia a livello nazionale che internazionale. E come dar loro torto considerando gli acquisti, nel giro di due anni, di Romelu Lukaku, Arturo Vidal e Alexis Sanchez? E poi Hakimi, Eriksen, Young, Darmian.
Ci sono delle partite che sono destinate a entrare nella storia a prescindere dal loro valore prettamente agonistico o dal coefficiente tecnico dei contendenti in campo. Così può capitare che un (all’apparenza) anonimo match della seconda giornata del campionato di “Primera Division” femminile argentina tra Lanus e Villa San Carlos, disputato lo scorso lunedì 7 dicembre e terminato per sette reti a una a favore delle prime, rappresenti un passaggio epocale, non solo per il calcio argentino, ma per tutta la società del paese sudamericano.
La motivazione è dovuta alla presenza nelle fila del Villa San Carlos di Mara Gómez, ventitré anni, la prima calciatrice transgender a scendere in campo in un match ufficiale.
Probabilmente alla maggior parte dei lettori e delle lettrici il nome di Asaléa de Campos Fornero Medina non dirà nulla, eppure il suo contributo alla lotta alle discriminazioni di genere nel mondo del calcio e dello sport in generale è stato fondamentale. Infatti Lea Campos, questo il diminutivo con cui è maggiormente conosciuta, è stata il primo arbitro donna della storia formalmente riconosciuto dalla storia. In un contesto in cui era già di per sé molto problematico giocare a pallone per le donne, figurarsi i pregiudizi nei confronti di quelle che invece che fare le calciatrici avrebbero preferito arbitrare.
E infatti, la vicenda umana di Léa Campos è una vicenda di lotta contro tutte le avversità: dai pregiudizi di genere alla dittatura brasiliana.
Sette incontri, sette mascherine, sette nomi.
Naomi Osaka ha giocato sette partite per consacrarsi nuovamente come campionessa degli US Open di tennis. Un torneo che ha risentito di condizioni di contesto in quel Paese che sarà praticamente impossibile che si possano ripetere contemporaneamente: una pandemia e un'ondata di proteste popolari contro la violenza razzista e l'impunità della polizia. È stata proprio la somma di queste due condizioni a dare lustro alla figura di Naomi Osaka, che, dopo il soggiorno nella bolla americana, si è tolta il soprannome di timida che si era autoassegnata qualche anno fa per iniziare ad abbracciare il suo ruolo di personaggio pubblico e diventare anche un’attivista.