Ricordi di un ragazzino di appena undici anni, quelli dell’Europeo del 1992, mai giocato dalla nazionale Jugoslava. Un salone di uno dei tanti hotel di Creta: davanti allo schermo si guardava la finale di quell’edizione vinta poi da una squadra colorata di bianco e rosso, ripescata causa esclusione della rappresentativa con la stella rossa. Uno dei ricordi più nitidi che ho parlando di Jugoslavia. Ricordi di un ragazzino che non poteva sapere e immaginare – anche se la parola guerra riecheggiava – del massacro fratricida che si stava consumando in quelle terre.
Quella squadra fantasma era composta da una generazione di fenomeni provenienti da tutte le Repubbliche federali; una generazione d’oro, tanto da farla soprannominare il “Brasile d’Europa”. Una generazione che alla pari del sistema cestistico (altro vanto Jugoslavo), portò all’apice il sistema calcio, soprattutto con le squadre di club. Su tutte la gloriosa Crvena Zvezda, la Stella Rossa, che proprio nell’anno dello scioglimento della Federazione porterà sul tetto d’Europa – migliorando il risultato dei rivali del Partizan – e del mondo il calcio dei Balcani, anche se qualcuno pensava già che quella vittoria non fosse Jugoslava, ma Serba.
Notturno jugoslavo. Romanzo di una generazione, scritto a quattro mani da Emanuele Giulianelli e Paolo Frusca per i tipi diLes Flâneurs Edizioni, ci fa fare un salto nel passato di una delle più grandi nazioni del continente europeo. Attraverso la vita romanzata di Aca, e vere interviste ai protagonisti di questa storia, ci immergiamo nel mondo del calcio jugoslavo, riuscendo a ripercorrere l’ascesa e la dissoluzione politica, economica e sociale di un intero Paese, capace di tenere unite sotto la stella rossa del socialismo popolazioni con religioni, etnie, idiomi differenti.
Cosa succede quando i ribelli diventano una forza stabilizzatrice, quando il contropotere scende a patti col potere per ritagliarsi i propri spazi? C’è ancora la possibilità e l’opportunità di definirsi antisistemici? Suvvia, sono sicuro che nella nostra militanza politica o di curva questo tipo di interrogativi siano passati almeno per una volta nella mente di ognuno di noi. Ecco, probabilmente Puerta 7 è ciò che si avvicina di più a una tra le possibili risposte a tutti questi dubbi.
Ero molto curioso di vedere questa serie, sia per i pregevoli lavori realizzati in questi ultimi anni dal cinema sudamericano e sia perché affascinato dal tema delle barras argentine, che per molti aspetti rappresentano un alter ego rispetto all’impostazione “italo-centrica” dei classici gruppi ultras europei, già da prima che diverse curve del Belpaese ne scimmiottassero i cori o l’impostazione in curva. Certo, le differenze sono a tratti enormi, ma in fin dei conti esse riflettono tout-court quelle tra i due paesi.
C’è da riconoscerlo: noi calciofili siamo oltranzisti e diffidenti per natura. In primis nei confronti di tutto ciò che si discosta da quella che decantiamo da sempre come la sacralità del football. Per di più se rivendichiamo il suo carattere popolare.
Il nostro fondamentalismo assurge a legge inconfutabile se abbiamo vissuto anche solo una parte della nostra vita a cavallo tra il cosiddetto “vecchio calcio” e l’avvento del “calcio moderno”. Se per quest’ultima locuzione intendiamo lo spartiacque temporale dei primi anni Novanta del secolo scorso, con l’affermazione dell’industria televisiva delle pay-tv e della “Sentenza Bosman”, sulla libera circolazione dei calciatori comunitari nei paesi della Comunità Europea. E il conseguente corollario di trasformazione definitiva del calcio in un’industria multimilionaria.
La premessa di fondo è che se non ci ritrovassimo in una situazione tanto straordinaria come quella attuale non avrei mai visto questo film e col senno del poi, posso affermare che la mia vita non ne avrebbe risentito affatto. Ciò non per mancanza di stima nei confronti di Francesco Lettieri, di cui anzi devo ammettere che, nonostante difficilmente riesca ad appassionarmi a prodotti musicali contemporanei, ho davvero apprezzato i suoi videoclip per Liberato e infatti proprio la colonna sonora, pur essendo sostanzialmente diversa da quella che ci si aspetterebbe per un film del genere, è la cosa che mi ha convinto maggiormente. Il mio scetticismo era dovuto al fatto che sia già molto difficile per un ultras descrivere quello che siamo, figurarsi per chi non lo è, parafrasando gli Erode “se non sei uno di noi, non lo sarai mai”, e non riuscirai mai a raccontare gli ultras nella loro profondità. E a quanto pare, anche i “contro-trailer” organizzati dagli ultras napoletani a suon di scritte sui muri, sembrano avallare questa teoria “tecnocratica”, così come l’allontanamento dalla curva di chi si è prestato a fare la comparsa (così sembrerebbe, comunque non membri dei gruppi ultras). Certo, non si può dire che gli ultras partenopei non abbiano le loro valide ragioni e comprendo che a chi negli anni si è esposto e continua ad esporsi mettendo a repentaglio la propria incolumità e la propria fedina penale, possano davvero girare i coglioni nel trovare le immagini di cortei e di altre “situazioni ultras” prese liberamente dal web per ritrovarsele sbattute davanti gli occhi a corollario di quello che – chiariamolo una volta per tutte – non è il tentativo di spiegare e raccontare gli ultras dal loro interno, bensì un prodotto commerciale, come testimonia anche la squallida vendita di adesivi e altro materiale affine alla pellicola avviata da qualche sciacallo, così come i disinvolti richiami a diversi gruppi di primo piano tramite affinità grafiche o il canto di un inno storico, senza contare i velati, ma percepibili, richiami alla vicenda di Ciro Esposito, nonostante le smentite di rito del regista, una cosa quest’ultima davvero di dubbio gusto.