Avete presente quelle serie-tv culto dalle quali poi a distanza di anni viene prodotto il prequel scatenando l’entusiasmo di tutti i fans? Ecco, per chi come il sottoscritto è cresciuto a pane e Valerio Marchi, alla ricerca di un’autocomprensione fondamentale per legittimare le proprie pulsioni più inspiegabili, e proprio per questo più belle, Football Hooliganism di John Clarke (pubblicato da Deriveapprodi con l’introduzione di Andrea Ferreri e traduzione a cura di Luca Benvenga) ha avuto lo stesso effetto, come se si chiudesse un cerchio sul fenomeno del tifo d’oltremanica, con immancabili ripercussioni anche per quanto avveniva nelle curve d’Italia e del resto d’Europa.
Certo, gli studi presi in considerazione saranno anche datati risalendo agli anni ’70, ma nondimeno sono più che validi per analizzare la nascita e lo sviluppo di un fenomeno che nonostante molteplici trasformazioni (talvolta anche radicali) è ancora vivo e vegeto, attraverso l’approccio delle varie scuole sociologiche: quella struttural-funzionalista di impostazione marxista che si raccoglie intorno a Taylor, a cui spetta il merito di essere stato il pioniere in questo tipo di studi; il filone “costruttivista” della scuola di Oxford e del disordine organizzato, della violenza negli stadi come metafora guerresca e dell’ingresso del concetto di moral panic e folks devil che ci sono tanti cari, fino ad arrivare al filone “configurazionista” della scuola di Leicester che si sofferma sulle connessioni tra la formazione individuale dell’hooligan e le strutture sociali collettive.
L’estate del 1998, per uno che oggi ha poco più di trent’anni e ama lo sport, è stata qualcosa di difficilmente ripetibile. Sicuramente c’entra l’età ideale, già abbastanza adulta per seguire tutto in ogni suo aspetto, ma ancora sufficientemente fanciulla da vivere le cose con uno stupore e un’emozione prossimi all’assoluto. Fu l’estate in cui si disputò il Mondiale di calcio più bello della storia. Di rigori che si stampano sulla traversa e di copiose lacrime dodicenni, di uno Zidane onirico, della caduta del Fenomeno. Ma in realtà fu quello che successe prima e dopo a segnare la memoria in modo tale che ancora adesso, affondando nei ricordi, le emozioni tornino a pelle. L’estate di Marco Pantani, che forse è tanto potente nell’immaginario anche perché mai più ripetuta.
“Attraversiamo i nostri labirinti neri, ombre ammassate. I fuochi sono ormai tutti spenti. Noi siamo il fumo che segna il mattone. Siamo il ruggito di ferro che credevate d’aver messo a tacere. Cantiamo al metallo contorto e lungo tunnel allagati, sopra distese vuote d’acqua e campi di detriti. Cantiamo di giorni migliori”. Sono queste le parole con cui si apre Iron Towns. Città di ferro di Anthony Cartwright (66thand2nd, 2017, uscito in Gran Bretagna nel 2016). Un ritratto cupo e lirico di un distretto industriale in dismissione, di lande dove la nebbia crea un tutt’uno con la polvere e la cenere dei vecchi impianti industriali il cui rombo è ormai solo un lontano ricordo. Un distretto di fantasia ma crudamente reale. I luoghi nominati nel libro in realtà non esistono, ma sono ancorati alla realtà delle Midlands occidentali, non lontano dal confine gallese, dove ai profili delle colline si alternano le vallate ricoperte di cemento, ciminiere e alveari di operai ora perlopiù disoccupati. Anche la squadra di calcio, l’Iron Town Football Club, non esiste, ma la sua storia è quella di tante vere squadre di ogni angolo del mondo, legate in modo indissolubile ai destini altalenanti delle rispettive comunità.
Il titolo è certamente d’impatto, cattura l’attenzione ma lascia mille punti di domanda. Il sottotitolo colpisce meno, sembra più scolastico, ma ha molta importanza: “frammenti di un discorso sul pallone”. Scorrendo qualche recensione qua e là, Uccidi Paul Breitner (Edizioni Alegre, collana Quinto Tipo, 2018) viene definito come un libro sul calcio come strumento di dominazione, sia ideologica che concreta ed economica, politica e militare, una delle armi più efficaci che il potere ha per consolidarsi, ramificarsi, espandersi, moltiplicare i profitti. Ma una lettura del genere è semplicistica fino quasi al rischio di equivocare il senso del libro. E qui viene in aiuto il sottotitolo: quelli che ci regala Pisapia sono per l’appunto frammenti di un discorso, spunti per la ricerca e la discussione, segnali di fumo molto chiari e potenti per chi ha voglia di coglierli e ricostruire un discorso antagonista in un’epoca dove vorrebbero farci credere nella fine delle ideologie, della contrapposizione tra classi, della possibilità di lottare. L’interpretazione secondo cui il libro parla del calcio come strumento di potere sembra alludere al fatto che quest’opera sia un ritratto statico del disastro, della sconfitta, della lucida disillusione, quando è in realtà tutto il contrario.