Abbiamo visto i nostri demolire uno stand che vendeva wurstel e rovesciare un grill a carbonella. L’intero accrocco è bruciato come una torcia sovradimensionata dentro lo stadio dell’Amicizia semibuio. Io e Kai siamo rimasti spalla a spalla a incitare il fuoco, con la luce delle fiamme che si riverberava sui nostri denti scoperti, mentre Tomek e Hinkel e Toller e mio zio si sono messi a tirare pugni ai poliziotti. Quelli li picchiavano con i manganelli, ma loro mica indietreggiavano. Anche se avevano solo le mani, si difendevano con quelle. Io e Kai ci siamo guardati e lui ha pensato la stessa cosa che ho pensato io, e abbiamo giurato entrambi che anche noi non saremmo mai indietreggiati e che un giorno saremmo stati lì con loro. In primissima fila. E abbiamo sigillato il nostro giuramento dandoci il cinque. Philipp Winkler, Hool (66thand2nd, 2018)
Hool, romanzo di esordio di Philipp Winkler (classe 1986), scrittore cresciuto nei sobborghi di Hannover, è stato tra i libri finalisti al Deutscher Buchpreis, il più importante premio letterario tedesco, e ha vinto il ZDF-aspekte-Literaturpreis 2016.
La prima cosa che bisogna dire riguardo “Yallah!Yallah! Calcio, passione e resistenza” è che non si tratta di un film, bensì di un documentario. I registi (Cristian Pirovano e Fernando Romanazzo, argentini impegnati per la prima volta in una co-produzione cinematografica argentino-palestinese) hanno sapientemente – per chi scrive – scelto di non seguire la vicenda di un singolo protagonista ma di sette diverse persone impegnate a vario titolo nel calcio (giocatori, allenatori, dirigenti palestinesi della FIFA, tifosi di squadre di calcio locali). Più che di una trama specifica, quindi, si può parlare di un intreccio di quotidianità. Un mescolarsi di vite diverse, con diverse ambizioni e speranze ma segnate da un presente comune. Il racconto, però, non si svolge sotto la nube scura della rassegnazione. Nella difficoltà il sottofondo è di speranza, di resistenza a un’oppressione che va avanti ormai da decenni. La voglia è quella di guardare avanti, di inseguire il proprio sogno sportivo o semplicemente lottare per una vita dignitosa e, soprattutto, libera nella propria terra.
Avete presente quelle serie-tv culto dalle quali poi a distanza di anni viene prodotto il prequel scatenando l’entusiasmo di tutti i fans? Ecco, per chi come il sottoscritto è cresciuto a pane e Valerio Marchi, alla ricerca di un’autocomprensione fondamentale per legittimare le proprie pulsioni più inspiegabili, e proprio per questo più belle, Football Hooliganism di John Clarke (pubblicato da Deriveapprodi con l’introduzione di Andrea Ferreri e traduzione a cura di Luca Benvenga) ha avuto lo stesso effetto, come se si chiudesse un cerchio sul fenomeno del tifo d’oltremanica, con immancabili ripercussioni anche per quanto avveniva nelle curve d’Italia e del resto d’Europa.
Certo, gli studi presi in considerazione saranno anche datati risalendo agli anni ’70, ma nondimeno sono più che validi per analizzare la nascita e lo sviluppo di un fenomeno che nonostante molteplici trasformazioni (talvolta anche radicali) è ancora vivo e vegeto, attraverso l’approccio delle varie scuole sociologiche: quella struttural-funzionalista di impostazione marxista che si raccoglie intorno a Taylor, a cui spetta il merito di essere stato il pioniere in questo tipo di studi; il filone “costruttivista” della scuola di Oxford e del disordine organizzato, della violenza negli stadi come metafora guerresca e dell’ingresso del concetto di moral panic e folks devil che ci sono tanti cari, fino ad arrivare al filone “configurazionista” della scuola di Leicester che si sofferma sulle connessioni tra la formazione individuale dell’hooligan e le strutture sociali collettive.
L’estate del 1998, per uno che oggi ha poco più di trent’anni e ama lo sport, è stata qualcosa di difficilmente ripetibile. Sicuramente c’entra l’età ideale, già abbastanza adulta per seguire tutto in ogni suo aspetto, ma ancora sufficientemente fanciulla da vivere le cose con uno stupore e un’emozione prossimi all’assoluto. Fu l’estate in cui si disputò il Mondiale di calcio più bello della storia. Di rigori che si stampano sulla traversa e di copiose lacrime dodicenni, di uno Zidane onirico, della caduta del Fenomeno. Ma in realtà fu quello che successe prima e dopo a segnare la memoria in modo tale che ancora adesso, affondando nei ricordi, le emozioni tornino a pelle. L’estate di Marco Pantani, che forse è tanto potente nell’immaginario anche perché mai più ripetuta.