Com’è ampiamente immaginabile, la quarantaseiesima edizione della Maratona di Berlino in programma domenica prossima attirerà tutti gli appassionati e intenditori che potranno soffermarsi sulle principali stelle, sia in campo maschile con Kenenisa Bekele, l’etiope tre volte campione olimpico, i suoi connazionali Birhanu Legese, Leul Gebrselassie e Sisay Lemma e il keniota Felix Kandie, che in quello femminile come Gladys Kerono e Meseret Defar.
Tuttavia, anche chi non è esattamente un appassionato del podismo potrebbe trovare dei motivi di interesse per seguire la gara, magari adottando alla lettera i dettami di De Coubertin, quindi senza il bisogno di doversi necessariamente concentrare sulla testa della corsa e sui probabili vincitori, ma sui partecipanti e in particolare su uno di essi che porterà sulle proprie spalle il dolce peso di dover rappresentare un intero popolo, o più prosaicamente una bandiera della Palestina.
«C’è un uomo solo al comando, veste la maglia bianco azzurra e il suo nome è Fausto Coppi!». Questa frase, pronunciata dal principe dei radiocronisti Mario Ferretti, è entrata a pieno titolo nella nostra storia collettiva, sportiva e non: come il «clamoroso al Cibali!» e anche di più, ha varcato la soglia della nostra storia sociale e della psicologia collettiva. Perché oltre a essere uno dei ciclisti più vincenti della storia, protagonista della rivalità più celebre e allo stesso tempo totalizzante del ciclismo italiano e non solo, il primo a fare l’accoppiata Giro d’Italia - Tour de France, capace di imprese impensabili, Fausto Coppi rappresentava tutto il Paese in uno dei momenti più nevralgici della nostra storia recente, quello a cavallo della Seconda guerra mondiale, a cui egli prese parte venendo anche catturato dagli Alleati in Tunisia; la miseria della vita contadina, la speranza, la rinascita quando tutto sembra già essere delineato in maniera avversa.
Nella primavera del 1958, la controguerriglia condotta dall’esercito francese contro i ribelli algerini causò gravi perdite all’interno del Fronte di liberazione nazionale (FLN), l’organizzazione politico-militare che combatteva per l’indipendenza dell’Algeria. La liberazione del Paese era quindi più che incerta, soprattutto perché il movimento era attraversato da un sanguinoso conflitto interno.
Questo articolo è dedicato a te. A te che hai scoperto il pugilato domenica 2 giugno 2019, per caso, sulla timeline di un social network qualsiasi. E ti sei fomentato.
Ti sei fatto stregare da una bella storia – è questa è l’unica scusante che hai – in cui un pugile granitico, fisicato e scolpito nel marmo, nonché campione del mondo in quattro sigle, è stato sconfitto e messo ko da uno che sui social, ma anche in molti articoli, veniva definito come un «ciccione venuto dal nulla». Sì perché l’unica cosa che hai visto è uno «col fisico» menato e umiliato da uno «fuori forma», in cui ti sei immedesimato. Il primo ricco, bello e predestinato, il secondo brutto, sovrappeso e senza chance, oltre le semplificazioni giornalistiche.