Da Messico ’68 alle iniziative per i ragazzi: sempre dalla stessa parte.
Una corrispondenza dal 13th TOMMIE SMITH YOUTH TRACK MEETING
Berkeley, CA. – LORENZO IERVOLINO
«That’s the word» dice con impeto, non appena termino la mia lunga domanda. Questa è la parola chiave: «The world» il mondo. La voce di Tommie Smith procede con cadenza musicale, non è troppo bassa né acuta, le parole lente e scelte con cura, il suo volto non mostra nessun segno di insofferenza rispetto a un pezzo di storia che avrà raccontato ormai migliaia di volte. Detentore di undici record mondiali, campione olimpico dei 200m, immortalato nella protesta del pugno col guanto nero sul podio delle Olimpiadi di Messico’68, non ha bisogno di tante presentazioni.
Intanto attorno a noi la seconda giornata del meeting giovanile da lui organizzato procede con le gare dei 1500 metri e del salto in lungo. Le competizioni riguardano tutte le discipline dell’atletica e sono rivolte a ragazzi e ragazze tra i 4 e i 16 anni, appartenenti in prevalenza alla comunità nera della Bay Area (per intenderci, la zona attorno a Oakland e San Francisco). Ieri, all’inaugurazione, lo speaker ha annunciato che i partecipanti sono milleduecento.
Ad aggredire un pugile ci vuole un bel coraggio. Soprattutto se questo è uno che di ganci, diretti e montanti ci campa e si allena senza sosta da una vita, avendo immolato la propria esistenza nella pratica della noble art.
E quest’azione potrebbe apparire addirittura come “kamikaze” se il bersaglio diventa Manny «Pacman» Pacquiao. Ma prima di entrare nel pieno della vicenda, meglio riannodare qualche filo.
A chi non conosce il ring, va forse spiegato che Pacquiao non solo è un pugile professionista – campione del mondo in otto diverse categorie – ma secondo molti è da considerarsi uno dei migliori boxeur pound for pound della storia. Quello che è sicuro però è che dall’inizio del nuovo millennio di pugili della classe di Manny se ne sono visti molto pochi, con un record di 57 vittorie (38 k.o.), 6 sconfitte e 2 pareggi.
Domenica 13 marzo, a Istanbul si è disputata la Coppa della Resistenza a cui hanno partecipato lo Spartakistanbul, una squadra mista della “Lega Efendi” * e della “Lega Gazoz” **, l'Istanbul United, il Karadolapspor, e i nostri amici ateniesi dell'Asteras Exarchion che si sono aggiudicati la vittoria finale del torneo battendo in finale il Karadolapspor per 4-2.
Ma al di là del risultato sportivo, ciò che è stato realmente importante è il messaggio simbolico di questo torneo che ha visto presenti squadre di due città e realtà europee così speculari come quella turca e quella greca unite dal medesimo messaggio riportato nel comunicato stampa dell'organizzazione: “Il calcio è bello per le strade non sul mercato azionario” che si poneva l'obiettivo di combattere il calcio business, il razzismo, il sessismo, il fascismo le espressioni di odio, e tutti i tipi di discriminazione, rilanciando allo stesso tempo progetti di unità, pace, amicizia e fratellanza, e di resistenza ai processi capitalistici capaci di crescere e diffondersi col tempo.
Era la prima volta che assistevo a un incontro di rugby, domenica. L'ultima (e unica) volta che ci ero andato vicino, molto vicino, fu quasi per caso: era il febbraio del 2009 e per festeggiare il conseguimento della mia laurea triennale andai in vacanza in Irlanda; la penultima sera del mio soggiorno, scoprii, quasi per caso, che l'indomani si sarebbe giocata la partita Irlanda-Inghilterra valida per il “6 nazioni”. Il giorno successivo, dopo una notte in cui le mie aspettative di assistere a un qualcosa di simile alle vigilie dei match calcistici più caldi, farciti da molta tensione in mezzo alle strade della capitale irlandese e gente che non avrebbe fatto molto per nascondere una reciproca ostilità, erano state frustrate da un coesistenza quantomeno pacifica nelle strade di “Temple Bar” e non solo, scoprii ancora più casualmente che l'ostello in cui avevo alloggiato per tutta la durata del mio viaggio era a non più di un paio di isolati dal leggendario “Croke Park”. Questo stadio, il più grande di Dublino, resta il principale punto di riferimento per gli sport gaelici e giusto un paio di anni prima, nel 2007, era stato aperto anche agli altri sport, compreso l'inglese rugby, e decisi di andare a vedere il clima che si respirava nelle vie circostanti, prima di imbarcarmi sull'aereo di ritorno. La sensazione che ebbi all'immediato ritorno, fu quella di rammarico per aver perso non solo un evento sportivo di caratura internazionale, ma anche una vera e propria festa di popolo e che difficilmente avrei potuto avere un altro impatto così gioviale e “popolare” con uno sport non esattamente nelle mie corde, quale resta tuttora il rugby.