La mia generazione è figlia degli eventi di cui parla questo libro (Pippo Russo, Gol di Rapina. Il lato oscuro del calcio globale, pagg. 296, Ed. Clichy - Firenze 2015): passaggi di natura finanziaria o legale che però fanno luce sul percorso politico che piano piano ha imboccato il calcio moderno, quello della spettacolarizzazione e della speculazione, fino a perdere di vista anche l’aspetto che sembra invece scontato, quello di giocare bene la propria partita, di scontrarsi nel campo e non negli studi degli agenti dei giocatori. Le squadre come fondi d’investimento, dove non interessa più a nessuno che si sostenga la propria squadra del cuore ma importa solo che il tifoso diventi un cliente.
Questo libro-inchiesta ci svela nel dettaglio tutto il sistema della triangolazione dei giocatori, con squadre che comprano giocatori per non vederli mai scendere in campo, e che fanno quindi solo da ponte con un’altra squadra, grazie alla mediazione di uomini inseriti in reti di malaffare globali.
Questo sistema ha il suo completo sviluppo in Argentina, ma non è un prodotto importato, l’Europa in questo rimane antesignana, basta vedere cosa succede in Portogallo. La sentenza Bosman che liberalizzò la circolazione di giocatori comunitari senza limitazione nel ’95 sembrò una grande vittoria: non più giocatori schiavi del club ma liberi di andare dove vogliono a fine contratto. Ma la conseguenza è l’aver permesso di poter innescare un meccanismo di vera e propria caccia al giocatore.
Dici Cass Pennant e quello che viene in mente sono anni e anni allʼinsegna dellʼhooliganismo e di battaglie campali a suon di colpi proibiti per affermare quale fosse la migliore firm dʼoltremanica. Tutto verissimo, per carità, ma quanto appena affermato non basta a spiegare lʼintera parabola del personaggio. Celeberrimo leader della famosissima ICF (Intercity Firm), chiunque conosca un poco le sue vicende personali sa che questa è stata la prima, fondamentale, tappa della sua vita, ma non lʼultima. Infatti è da ormai diversi anni che ha deciso di abbandonare la militanza attiva nel mondo delle terraces, per cimentarsi in altri percorsi, diventando così tout court scrittore e regista. Proprio a causa di questa sua seconda vita, Cass sabato scorso è stato ospite in un Sally Brown gremito, per presentare il suo nuovo cortometraggio “Beverley”, basato sulla vera storia di una giovane di padre nero e madre bianca, Beverley per lʼappunto, alle prese con la sua lotta per affermare la propria identità in un periodo delicato come fu quello dellʼInghilterra thatcheriana, con una società che sebbene fosse sulla soglia di un cambiamento epocale, ancora non lo viveva in maniera partecipe.
Da che mondo è mondo, esiste una “storia” ufficiale, che passa agli annali, viene presa per vera e, soprattutto, è invariabilmente scritta dai vincitori. Poi ci sono le storie, o le leggende, senza le quali la storia ufficiale sarebbe un freddo e scarno referto di avvenimenti. Quelle che colorano il mondo, gli danno senso profondo, spiegano i comportamenti umani più di mille trattati scientifici. E il calcio è uno di quei mondi che non può fare a meno di simili leggende, quelle che andremo a conoscere con questa serie di racconti. E si badi bene, queste storie sono vere. Come sono vere tantissime altre leggende e storie tramandate. Parafrasando Pasolini, “sono vere ma non abbiamo le prove”. Semplicemente la tradizione orale, i racconti sentiti a bordo campo, negli spogliatoi, nelle chiacchiere da bar tra addetti ai lavori, nelle redazioni. La storia raccontata dal popolo, che viene trascritta solo se qualcuno ci si mette, come accadde millenni fa a tale Omero. Pur non avendo simili ambizioni, abbiamo ricevuto delle storie da un suo umile e anonimo emulatore contemporaneo. E queste storie ci raccontano, nellʼarco degli ultimi ventʼanni, il calcio dellʼimbroglio, dello scandalo, del sottobosco, non solo nel “calcio che conta” ma anche nella laida provincia, tra personaggi dʼaltri tempi e macchiette di paese. Dove lʼanima potente e quella popolare del calcio e dellʼessere umano si fondono in una trama ridicola e inquietante, deprimente ed esaltante. Il tutto sotto lo sguardo di un “Grande Vecchio” che tutto sa e tutto può. Ogni giovedì su sportpopolare.it. Buona lettura.
Per raccontare Essere skinhead di Ruggero Daleno, pubblicato da Hellnation libri a novembre, bisognerebbe suonarlo a tutto volume nella casse di un vecchio stereo a valvole. Perché la sventagliata di canzoni e vinili è continua come una raffica, senza tregua.
Suonano fra le pagine i migliori dischi della scena italiana Oi! dalla Banda del Rione – evocata più volte con rammarico a causa dello scioglimento – Nabat, Ennecibi, Fun, Gozilla, Colonna Infame, Bull brigade, Automatica aggregazione, Youngang e molti altri, così come si vola Oltremanica, con Booze & Glory e la loro London skinhead crew, Sham69, Cock sparrer, The 4 Skin cosicché la panoramica fra “doppi pedali” e schitarrate distorte è di classe e internazionale. Al punto che, dopo aver preso in mano il libro, si può addirittura provare a intercettarne l’odore, per sentire distintamente quell’aroma di celluloide che si sprigiona da ogni lp, quando si strappa la plastica che copre la foderina.
Ruggero Daleno è nato a Barletta nel 1992, quando scoppia la guerra in Jugoslavia, viene ucciso Falcone e si è nel pieno del maxi-processo a Cosa Nostra. Ma sono anche gli anni di Tangentopoli, delle mazzette nei loden, dei paninari e degli scontri razziali a Rostok in Germania, dove migliaia di bonehead assaltano, fra gli applausi del quartiere, abitazioni a massiccia presenza di immigrati, eventi che Daleno, skinhead e antifascista, conosce molto bene.
Le pagine del libro si leggono con facilità, sono agili, per certi versi intimiste con una narrazione focalizzata su Barletta, cittadina pugliese di provincia, affogata dall’industria e arrugginita dal lento progredire della crisi mondiale nelle sue stradine e sul lungomare, sulle panchine dei parchi, sulle grida dei ragazzi che la popolano appoggiandosi a muretti scalcinati.