Continua a fare parlare di sé, e non potrebbe essere altrimenti, la finale di Copa del Rey dello scorso 30 maggio, atto conclusivo della stagione calcistica del calcio iberico e svoltasi al “Camp Nou” di Barcellona tra la squadra di casa, vincitrice del trofeo, e l’Athletic Bilbao. Infatti, più che l’esito della partita, mai realmente messo in dubbio dall’andamento in campo, ciò che attirava maggiormente l’opinione pubblica ed i curiosi era l’accoglienza delle rispettive “hinchas” a tutto il rituale che l’avrebbe introdotta, vista anche la presenza del sovrano Felipe VI in tribuna d’onore. Ebbene, le aspettative non sono andate deluse, poiché sia la tifoseria catalana che quella basca, da sempre sulla stessa lunghezza d’onda e affini nel loro risentimento verso Madrid, hanno utilizzato l’occasione per rimarcare i loro sentimenti indipendentisti e di rigetto verso l’identità castigliana e la corona spagnola: in entrambe le gradinate hanno campeggiato delle coreografie composte da mosaici di cartoncini che andavano formando anche i colori delle rispettive bandiere nazionali.
Leggendo il titolo dell'album del 37enne artista comasco verrebbe da pensare ad un esordio da solista. In realtà si tratta del suo terzo disco, dopo la lunga militanza negli Atarassia Grop, e allora come mai “La prima volta”? La risposta si trova all'inizio del libretto che contiene i testi, ed è ispirata dalla lettura del libro di Maurizio Maggiani “Il coraggio del pettirosso”: “Avevo dimenticato la mia storia. Quella cominciata nei primi anni novanta e proseguita tra palchi traballanti, sudore a fiumi, braccia nude tatuate mischiate nel pogo, urla e risate, abbracci fraterni, sguardi complici. Quella storia è tornata a prendermi e mi ha salvato. Ad un certo punto avevo quasi dimenticato chi sono e a cosa appartengo. Mi ero messo addosso una camicia stirata e mi ero incamminato, con tutta l'ingenuità che mi è possibile, ad inseguire il profumo inebriante della parola “cantautore”. Per abbondanza di paura ero finito ad assomigliare a tutti tranne che a me stesso. Ora ho ritrovato “il coraggio del pettirosso”, sepolto sotto quintali di voce lasciata in gola. Per questo coraggio e per questa (ri)presa di coscienza devo ringraziare tante persone...”
Scrivi degli ultrà
la vita da teppista
non dici verità
bastardo giornalista
Non mi ricordo più come sono diventato ultrà. A me, allo stadio, non mi ci ha mai portato mio padre: non è per onorare la sua memoria che seguo il calcio. Il calcio, per me, non è nemmeno tanto un fatto di cori o di bandiere e, se penso al campo da gioco, di colori e di profumi è l’ultima cosa di cui parlo. Ho una fede, certo. E questa è salda. Credo in dei principi ben precisi, ma non ho voglia di dire esattamente quali. Perché ci sono cose di cui si può parlare e altre per cui le parole non servono a nulla: per capirle occorre esserci. Ma,sopratutto, occorre fare.
Dopo la strada e la palestra, un buon posto dove fare a pugni è in libreria. Niente di strano perché fra scaffali e pile di libri non è difficile incontrare scrittori con zigomi rigonfi e naso schiacciato.
Così si può trovare Efrem Medina Reyes, alcolista, erotomane, musicista e pugile fallito, autore di diversi romanzi nei quali la boxe fa da sfondo.